Il pane e il vino sono gli
elementi del banchetto eucaristico, il cui simbolismo racchiude in sé un
contenuto non solo conviviale ma anche sacrificale o di oblazione.
Non è senza motivo che Gesù
abbia scelto il pane perché diventi il suo corpo nell’Eucaristia. Nell’area
geografica in cui si è svolta la vita di Gesù il pane è l’alimento
fondamentale, quello che può bastare per nutrire una persona. Il pane è, poi,
carico di molteplici significati. Nel Deuteronomio, per descrivere la terra
promessa in cui non mancherà nulla, il Signore parla di una “terra dove non
mangerai con scarsità il pane” (Dt 8,9). La Bibbia considera il pane come dono
di Dio, un mezzo di sussistenza così essenziale che, mancare di pane, significa
mancare di tutto. Nella preghiera del Padrenostro che Cristo insegna ai suoi
discepoli, la richiesta del “pane quotidiano” sembra quindi riassumere tutti i
doni che ci sono necessari (Lc 11,3). Dono di Dio e “frutto del nostro lavoro”,
il pane è fatto per essere spezzato e condiviso. Ogni pasto suppone una
riunione e quindi una comunione. Mangiare il pane regolarmente con uno
significa essergli amico quasi intimo: “Anche l’amico in cui confidavo, che con
me divideva il pane, contro di me alza il suo piede” (Sal 41,10). La Genesi ci
racconta che l’uomo caduto in peccato, mangerà il pane col sudore del suo volto
(cf. Gen 3,19): rotta la comunione con Dio, il pane, che è dono di Dio, diventa
un bene che si raggiunge con fatica.
Nell’Eucaristia adoperiamo il
pane azzimo, in greco a-zumè, cioè
“senza lievito”. Perché? Innanzitutto, sicuramente, in relazione alla Pasqua
ebraica. Prima di passare dalla schiavitù alla libertà, Dio ha ordinato al
popolo ebraico di mangiare rapidamente l’agnello e il pane azzimo. Nell’ultima
cena, condivisa con i suoi discepoli, Gesù ha dunque preso del pane azzimo. Ci
sono anche delle ragioni pratiche: si conserva più a lungo del pane lievitato e
fa meno briciole quando lo si distribuisce. Questo pane diverso ci ricorda che
l’Eucaristia non è un pasto come tutti gli altri.
Come il pane, anche il vino
dal punto di vista simbolico è carico di molteplici significati. Il vino è
simbolo di tutto ciò che la vita può avere di piacevole: l’amicizia, l’amore
umano, la gioia. Il vino “allieta il cuore dell’uomo”, dice il Sal 104,15. La
felicità promessa da Dio al suo popolo è espressa sovente sotto la forma di una
grande abbondanza di vino, come si vede negli oracoli di consolazione dei
profeti. Quando invece il popolo è infedele, rompe la comunione con Dio, il
Signore parla della privazione del vino. Il profeta Amos denunciando coloro che
opprimono l’indigente, afferma: “… voi che avete innalzato vigne deliziose, non
ne berrete il vino” (Am 5,11). Pane e vino sono quindi simbolo di comunione. Gesù è venuto per darci il vino della nuova
alleanza, il vino delle nozze eterne, e questo vino è il suo Sangue versato per
noi.
In occasione dell’ultima cena,
offrendo la coppa del vino, Gesù aggiunge che non berrà più d’ora in avanti il
frutto della vite fino a che non sarà venuto il regno di Dio (Lc 22,18).
Nell’attesa, questo vino sarà quello del suo sangue versato. Nel giardino degli
Ulivi, mentre prova la solitudine e l’angoscia fino a sudare sangue, Gesù parla
di questo calice che egli accetta: “Padre, se vuoi, allontana da me questo
calice! Tuttavia, non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22,42).
Il pane e il vino sono anche
simbolo di sacrificio, di oblazione. Il pane e il vino non sono rinvenibili in
natura, ma sono frutto di un processo che esprime appunto una simbologia
sacrificale. Dal chicco di grano che muore sottoterra nasce la spiga carica di
chicchi; essi, a loro volta, devono essere duramente macinati per diventare
farina, la quale amalgamata con l’acqua diventa impasto, che al vaglio del
fuoco offre il pane. Un processo simile riscontriamo nella produzione del vino:
i chicchi dell’uva sono sottoposti al torchio, alla ebollizione e purificazione
del tino, alla stagionatura paziente per diventare vino buono che rallegra il
cuore di quanti lo berranno, suggellando familiarità e stringendo amicizie. Non
si tratta di riflessioni da sottovalutare! Notiamo ancora che “ostia” viene dal
latino hostia, che significa
“vittima”, dal verbo hostire,
“colpire”. L’ostia designa dunque la vittima offerta in sacrificio e che, prima
di essere prestata a Dio, è stata colpita, immolata.
Con la riforma liturgica del
Vaticano II è stato ripristinato l’uso antico di portare in processione il
pane, il vino e l’acqua, simbolo della partecipazione dell’assemblea all’atto
di offerta.