Il popolo sacerdotale di Dio non è chiamato a
dominare il mondo, ma a servirlo, come segno e strumento di riconciliazione, di
unità; ad aver cura della casa comune e riunire tutti i popoli in una grande famiglia
universale. E in questo nobile compito ha il suo ruolo necessario e
imprescindibile la ritualità. Infatti, non c’è sacerdozio senza riti.
Caratteristica della modernità è una forte e
crescente disaffezione verso il rito, la tradizione e il linguaggio simbolico,
che va di pari passo con la crescita dell’individualismo Senza riti, la comunità si sgretola e pian piano scompare e il narcisismo
si impone e si impadronisce delle persone.
È famosa l’affermazione
dell’intellettuale africano del Senegal Léopold Senghor: “Gli occidentali
dicono (con Renato Cartesio): penso, quindi sono; noi africani diciamo: danzo, quindi
esisto”. Dobbiamo ricuperare il valore del rito, azione simbolica, come
strumento de partecipazione e via attraverso cui entriamo nella profondità del
mistero.
Attraverso la ripetizione, il rito ha un ruolo
iniziatico. Il ripetersi degli stessi gesti e delle stesse formule in
circostanze identiche e secondo un ritmo periodico, coloro che accedono al rito
assumono pian piano i valori di un determinato gruppo.
I riti non si inventano, ma procedono da una
tradizione, come succede con la lingua parlata.