Gb
19,1.23-27; Sal 26; Rm 5,5-11; Gv 6,37-40
I tre brani della Scrittura che sono proclamati in
questa messa aprono il nostro cuore alla speranza. L’orazione colletta riassume
bene questa tematica quando ci invita a rivolgerci a Dio chiedendogli di
confermare in noi la beata speranza che insieme ai nostri fratelli defunti
risorgeremo in Cristo a nuova vita. Questa speranza è declinata con diversità
di sfumature nelle tre letture bibliche e negli altri testi della messa. Ci
guidano in questa riflessione: Giobbe, san Paolo e Gesù.
Il libro di Giobbe, da cui è presa la prima lettura,
si ispira a un’esperienza dell’uomo di ogni tempo, quella del dolore. Più in
particolare, questo libro si sofferma sulla sofferenza che colpisce l’innocente
e il giusto, di fronte alla quale sembra stendersi l’ombra del silenzio di Dio.
C’è un momento in cui Giobbe, sprofondato nel dolore per le accuse che tutti
gli rivolgevano, nella solitudine totale, disprezzato e deriso – secondo la
credenza che considerava la sofferenza una punizione per il peccato –, sente
che ormai i suoi giorni vengono meno. Ma anche nel naufragio di tutte le
speranze umane, egli ha ancora una speranza nel cuore, che lo proietta al di là
del sepolcro che ormai l’attende e lo spinge in uno slancio dello spirito a
proclamare la sua fede: “Io so che il mio redentore è vivo […] Dopo che questa
mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne vedrò Dio”. San Girolamo e
molti altri Padri della Chiesa hanno visto in queste parole una dichiarazione
di fede nella risurrezione. La lettera di Giacomo cita l’esempio della pazienza
di Giobbe e “la sorte finale che gli riserbò il Signore” (Gc 5,11).
Il
“redentore” di cui parla Giobbe è Dio stesso, il “redentore” di Israele dalla
schiavitù dell’Egitto. La seconda lettura e quella evangelica vedono il volto
del nostro redentore in Gesù morto e risorto. San Paolo afferma che il
fondamento della nostra speranza è solido: possiamo far fronte alle angosce
della vita e alle tenebre della morte, perché Dio ci ama ormai per sempre:
“siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo”. La
speranza cristiana non è un vago sentimento, qualcosa di cui si teme il
carattere illusorio o di cui ci si dovrebbe addirittura vergognare; è vero
invece il contrario: noi ora abbiamo qualcosa di cui vantarci e gloriarci senza
timore, “ci gloriamo in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie
al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione”.
Le
parole di Gesù, raccolte e trasmesse dal brano evangelico, ci rassicurano che
Egli accoglie ciascuno di noi come dono del Padre e con tre significative
espressioni sintetizzano la sua missione: non lo caccerò fuori, farò
sì che non si perda, lo risusciterò nell’ultimo giorno. E conclude
il discorso con queste parole: “Questa, infatti, è la volontà del Padre mio:
che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo
risusciterò nell’ultimo giorno”. Vita è la metafora preferita da san
Giovanni per esprimere la salvezza di Dio in tutta la sua complessità. Eterna
indica la durata della vita e la sua qualità: una vita senza fine in
contrapposizione alla caducità della vita umana, e una vita davanti a Dio e con
Dio. Risurrezione dice che la vita donata da Dio vince la morte, una
vittoria che abbraccia l’uomo nella sua interezza di corpo e spirito. L’operare
di Gesù è conforme alla volontà del Padre: ciò che egli desidera e opera è
quella vita che il Padre vuole donare all’umanità insidiata dalla morte, perché
il Figlio è in piena comunione con il Padre e ne condivide totalmente i
disegni.