Possiamo distinguere una dimensione orizzontale o
psicologica e una dimensione verticale o trascendente. La speranza è
generalmente associata all’atteggiamento della persona o della società che
spera di ottenere in futuro un bene prezioso, difficile da raggiungere, da cui
dipende la propria felicità. O semplicemente intendiamo per speranza
quell'atteggiamento che accompagna l’azione umana come sua condizione di
possibilità, nel senso che ogni nostra azione, proprio perché esiste,
presuppone la fiducia nella possibilità del suo compimento. Viviamo di piccole
speranze quotidiane. Isidoro di Siviglia nel VII secolo identificò l’etimologia
di spes en pes, piede, mettendo così in relazione la speranza con
il cammino della vita. "Spes (speranza) è stato chiamato così
perché è come il pes (il piede) di colui che cammina".[1]
Vivere con speranza significa collocarsi nel “già” e “non ancora”, situarsi
nella storia, sottomettendosi alla sua logica, ma allo stesso tempo certi di
poterla trascendere. Parlare di speranza non significa evocare un ottimismo
cieco, né una ideologia, né un provvidenzialismo secondo il quale prima o poi
tutto conduce a un buon fine. La speranza accompagna l’evoluzione della vita e
lo sviluppo psicologico dell’esistenza, rende possibile l’apertura verso
l’inedito della storia.
Viviamo di attese, di piccole o grandi speranze
quotidiane, e ciò rivela quanto sia per noi essenziale trascendere il presente,
l’attimo fuggente. Ma è importante, al riguardo, mettere in luce un rischio a
cui può condurre un’errata comprensione della speranza: quello di tendere
costantemente oltre il presente, senza coglierlo nella sua irripetibilità,
costringendosi di conseguenza a nutrire vuote speranze, cioè un’esistenza
vissuta al futuro anteriore. In ogni modo, l’essere umano è naturalmente spinto
a prendere posizione di fronte al futuro, a scommettere sull’avvenire.
La dimensione cristiana della speranza può essere
riassunta molto brevemente con alcuni dati che la Bibbia ci offre. Il Nuovo
Testamento fa riferimento alla storia di Abramo per indicare che la Nuova
Alleanza è il pieno compimento della speranza di Israele (cfr. Eb 11,8-19) e
quindi il santo patriarca è considerato “il padre di tutti noi” (Rm
4,16). Con la Pasqua di Cristo, ciò che è definitivo (èschatos) esercita
il suo dominio nella storia, anche se la dinamica della speranza non si
esaurisce con Gesù Cristo, nel senso di una pienezza già ottenuta, ma la
conferma e la rafforza. Certamente noi cristiani abbiamo riposto la nostra
speranza in Cristo: “Gesù Cristo, nostra speranza” dice san Paolo (1 Tm 1,1) o
“Cristo in voi, speranza della gloria” (Col 1,27). E siamo invitati a rimanere “saldi nella
speranza che professiamo” (Eb 10,23). La speranza, come componente fondamentale
dell’antropologia cristiana, è intimamente legata alla fede nelle ultime
realtà. Non è illusoria, è piuttosto costante, e san Paolo la intreccia con
“l'attività della vostra fede, l'impegno della vostra carità e la costanza
della vostra speranza” (1 Ts 1,3).
Il poeta francese Charles Péguy, all’inizio del
suo poema sulla speranza, parla delle tre virtù teologali come di tre sorelle
che camminano insieme. La speranza cristiana ha come compagne di viaggio che
non l’abbandonano mai la fede e la carità, le sorelle più grandi. La piccola
speranza avanza fra le due sorelle grandi e non si nota neanche. È lei, quella
piccina, che trascina le altre due. È lei che fa camminare le altre due. E che
fa camminare tutti quanti. La speranza è il sale della quotidianità. La speranza
sorge dalla fede e si nutre dell’amore. Senza questa circolarità non sarebbe
possibile comprendere la specificità della speranza cristiana.
[1]
Isidoro
di Siviglia, Etimologie VIII,2,5, ed. it. a cura di Angelo
Valastro Canale, UTET, Torino 2004, pp. 629-631.