Pier Luigi Nervi 1948
di LORIS DELLA PIETRA
L’attuale
prassi celebrativa non può esimersi dal dettato basilare di SC 34: «I riti
splendano per nobile semplicità; siano chiari per brevità ed evitino inutili
ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non
abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni». Tutt’altro che la
bandiera di ogni riduzionismo celebrativo, è un piccolo gioiello letterario: un
ossimoro che, facendo leva sull’idea di “splendore”, accosta due realtà
apparentemente antitetiche come la semplicità
e la nobiltà per offrire un valido
principio di stile liturgico.
Soprattutto
in epoca controriformistica lo sviluppo rituale aveva raggiunto vistosi livelli
di espressione baroccheggiante. La semplificazione dei riti sembrava la
reazione di fronte ad un’impalcatura rituale contorta. Il dettato conciliare,
tuttavia, non ignora la possibile deriva della liquefazione dei riti fino
all’insignificanza e coniuga la necessaria semplicità, di sapore evangelico,
con la nobiltà, bandendo in tal modo lo ieratismo che allontana e distanzia
quanto la sciatteria che banalizza e non rimanda all’Altro. SC 34 sembra
affermare che sinonimo di solennità non è trionfalismo, macchinosità e enigma,
e fa comprendere che la nobiltà del rito riposa nella sua semplicità quale
garanzia di trasparenza comunicativa dei significanti. Lucida è la lezione, in
questo senso, di Guardini che, a proposito della forma fondamentale della Messa, egli la ravvisa proprio nel dato
elementare, immediato, “semplice” e solenne, ad un tempo, della cena. Il dettato
conciliare, pertanto, colloca il discorso sul terreno della competenza rituale
e non sulla mera spogliazione del rito di ogni rivestimento linguistico. La
semplicità del rito, infatti, è da riferirsi alla sua immediatezza, al suo
carattere “ovvio”, alla sua capacità di comunicare in modo naturale attingendo
al repertorio dei codici e delle esperienze umane; la sua nobiltà, tuttavia, lo
preserva dall’impoverimento banalizzante che non consente a chi vi partecipa di
varcare la soglia del quotidiano per affacciarsi sul mistero. A fronte di
celebrazioni ampollose e lunghe la brevità sembra custodire la freschezza e
l’efficacia del rito che non può disperdersi nei rivoli di un cerimonialismo
fine a se stesso e logorante, ma deve incidere nei corpi, nei cuori e nelle
coscienze. Per tale ragione SC chiede di evitare ogni inutile e leziosa
ripetizione di parole e di gesti e di fare leva sull’innocenza del rito ben più
efficace di ogni trovata accattivante, di ogni spiegazione moraleggiante o di
ogni iniezione catechistica. Ciò domanda una duplice attenzione: alla formalità del rito intesa come decoro,
convenzionalità, rispetto dell’indole ripetitiva, canonicità (l’obbedienza al
canovaccio rubricale quale criterio di adesione al progetto rituale) e alla sua
veritas per cui azioni e linguaggi
sono rispettati nella loro natura e la loro messa in opera “semplice” è la
migliore garanzia di simbolicità.
Tra
mera sontuosità fine a se stessa, forse nostalgica di altri climi culturali, e
impazienza nei confronti delle forme, c’è tutto lo spazio per la cura della forma rituale nella quale risplende l’efficacia pastorale dell’eucaristia e di
ogni sacramento (cfr. SC 49): da qui nasce la preparazione immediata di ogni
celebrazione grazie alla scelta dei vari elementi rituali (cfr. OGMR 23, 24 e
352).
All’inizio
del terzo millennio i Vescovi italiani denunciavano stanchezze e battute
d’arresto nella prassi liturgica, sottolineavano il carattere esigente della
liturgia e concludevano: «Serve una liturgia insieme seria, semplice e bella,
che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso intelligibile, capace di
narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini». Coniugare nobiltà e
semplicità, estetica e innocenza, così come profeticamente aveva intuito la
costituzione conciliare, è impresa sempre più necessaria in un’epoca dove le
tentazioni dell’impazienza (il rito deve subito dire qualcosa) che si spinge
fino alla deritualizzazione (attribuendo al rito una sorta di insincerità di
fondo) e della fuga verso “paradisi” cerimoniali di altri tempi sono quanto mai
ricorrenti. Occorrono menti aperte e tatto fine per celebrare nobili simplicitate evitando le vie
troppo brevi, spesso autentici vicoli ciechi, del far coincidere nobiltà e
semplicità tout court con materiali,
modi o forme particolari. In gioco, è sempre l’ars celebrandi, quale autentico servizio alla partecipazione del
popolo di Dio al mistero. Attraverso
questa preziosa competenza, mai scontata, l’azione si rende trasparente (per
questo è semplice) e si fa portatrice
non di realtà umane, ma soltanto del mistero ineffabile della salvezza in
Cristo Signore (per questo è nobile).
Fonte:
Loris Della Pietra, “Ars celebrandi”: La
bellezza del rito per edificare la Chiesa, in Franco
Magnani e Vincenzo D’Adamo s.i. (edd.), Liturgia
ed evangelizzazione. La Chiesa evangelizza con la bellezza della liturgia (Atti
del Congresso Roma 25-27 febbraio 2015), Rubbetino Editore 2016, 209-211 (le
note a piè di pagina non sono riprodotte).