Gabriella
Caramore e Maurizio Ciampa, Croce e
Resurrezione (Icone), il Mulino, Bologna 2018. 165 pp. 12 €.
Sessantacinque
anni separano la Salita al Calvario di
Pieter Bruegel il Vecchio dalla Cena di
Emmaus di Rembrandt. Del 1564 il primo, del 1629 il secondo. Diversa la
geometria della rappresentazione, diversi il dinamismo cromatico e la strategia
della luce.
Perché
abbiamo voluto accostare opere così distanti?
In
modi certamente diversi, Bruegel e Rembrandt portano dentro la spirale della
modernità il racconto della Croce e della Resurrezione di Gesù, e ne
custodiscono il paradosso e lo scandalo, ne conservano memoria, facendone
risaltare la fibra essenziale.
Una
forte carica interrogativa, che tocca e scuote i fondamenti dell’esperienza
cristiana, avvicina le due opere.
Congiungerà
il suo Golgota il Cristo smarrito della Salita
al Calvario? Quale strada può percorrere per vincere l’indifferenza da cui
è circondato? Questa è la domanda che troviamo in Bruegel. Ed è radicale,
perché si porta appresso il fardello pesante di un dubbio sull’efficacia del
simbolo cristiano.
[…]
Se
poi guardiamo alla Cena di Emmaus i Rembrandt,
a quel buio sfibrato che avvolge anche il Cristo, e a quella luce che emerge
dall’ombra come un enigma, l’evento della resurrezione, narrato parcamente nei
Vangeli, ma rivestito di significati immaginifici e consolatori nella storia
della cristianità, sembra spalancare una interrogazione nuova: che cosa il credente
può ancora credere? Che significato può avere il racconto della resurrezione in
tempi, come i nostri, di radicale scetticismo e di dubbiosa ricerca? Quale narrazione
di quell’evento può aiutarci a darne una lettura che non strida con l’esigenza
contemporanea di uscire dal linguaggio del mito?
[…]