Nella
preghiera del Padre Nostro c’è una petizione che costituisce un motivo di
disagio pastorale. Ci riferiamo all’espressione: “E non c’indurre in
tentazione”. Dio risulta così di essere l’artefice di un’operazione addirittura
dannosa per l’orante. Per questo motivo esegeti e responsabili ecclesiali, fra
cui anche papa Francesco di recente, hanno chiesto di modificare la
formulazione usata da secoli nella preghiera liturgica. Pietro Bovati (“Non metterci alla prova”. A proposito di
una difficile richiesta del Padre Nostro, in “La Civiltà Cattolica” 4023,
3/17 febbraio 2018, pp. 215-227) prova a fornire un apporto innovativo: da un
lato, attenendosi strettamente alla lettera del testo evangelico (in greco); e,
dall’altro, approfondendo il senso di questa difficile petizione. La chiave,
più che nel verbo (“indurre”), sembra essere nel senso proprio della parola che
in italiano abbiamo tradotto con “tentazione”. Dell’articolo, offro parte della
fine (pp.225-227):
[…]
Le
diverse petizioni della seconda parte del Padre Nostro espongono al Padre
diverse condizioni di bisogno e miseria della comunità in preghiera, non però
supponendo che Dio non sia al corrente o non voglia soccorrere, bensì con
l’intento di rinnovare la memoria degli aspetti e delle circostanze in cui il
Padre esprime la sua benevola azione compassionevole. Ora, uno dei luoghi
difficili dell‘umana esistenza è l’esperienza del dolore, provocato
dall’assenza di qualche bene importante o addirittura indispensabile. È giusto
ed è doveroso che l’orante non soltanto presenti al suo Dio le sofferenze, ma
esprima anche quanto esse lo privino dello slancio di fede e di speranza. Se
chiedere nella preghiera di essere esposti alla bufera del male sarebbe
ovviamente un atto di orgogliosa presunzione, anche pensare di essere capaci da
soli di superare le difficoltà non è atto di minore superbia. Al contrario,
invocare dal Padre, a ragione di un’umile consapevolezza della propria
fragilità, di essere risparmiati dal fuoco della prova è un atto che Dio
approva ed esaudisce. Chi sta pregando con il Padre Nostro domanda al Padre di
non essere immerso nella fornace del dolore, perché riconosce che essa
diverrebbe per lui una “tentazione”, una pericolosa occasione di sfiducia nella
Provvidenza, oltre che una mancata opportunità di lode per il Creatore della
vita.
Chi
avverte come Gesù nell’orto del Getsemani, l’approssimarsi della terrificante
minaccia della morte, chi prova dunque nel cuore angoscia grande (Mt 26,38), è
chiamato a entrare in preghiera, e a ripetere con il Cristo: “Padre mio, se è
possibile, passi via da me questo calice!” (Mt 26,39), perché solo chiedendo di
non fare esperienza della morte l’orante riconosce che la vita è un bene da
desiderare, e perché solo chiedendo di vivere, il credente accoglierà la
volontà di Dio, quale sicuro esaudimento della sua richiesta (Eb 5,7).
Il
momento drammatico della prova si presenta alla coscienza in alcune particolari
circostanze: quando la minaccia si avvicina, quando assume contorni spaventosi.
Può trattarsi di una catastrofe naturale, di un dissesto economico, di una
malattia grave, o di una inimicizia foriera di molteplici e indicibili
sofferenze. Se ben consideriamo le nostre preghiere spontanee, se ci domandiamo
insomma che cosa chiediamo a Dio quando apriamo a lui il nostro cuore, dobbiamo
constatare che ogni volta gli domandiamo di non entrare nella prova. Anzi, come
ci invita a dire Gesù nell’ultima petizione (secondo il testo di Matteo), la preghiera
al Padre chiede di essere “liberati dal male”, intendendo con ciò di essere
fatti uscire da qualsiasi realtà perniciosa che si oppone alla vita, e quindi a
Dio stesso.
Non
si tratta dunque di pregare il Padre esclusivamente di essere in grado di superare
le tentazioni e vincere le seduzioni del Maligno – cosa questa senz’altro
necessaria –, ma anche di supplicare il Dio buono che conceda il suo aiuto a
chi è piccolo e fragile, a chi sa che “lo spirito è pronto, ma la carne è
debole” (Mt 26,41), così da attraversare la notte senza perdersi. Pensiamo a
tutti coloro che si rivolgevano a Gesù chiedendo la guarigione; pensiamo anche
alle molteplici richieste che ripetiamo quotidianamente, riprendendo le formula
dei Salmi o delle orazioni liturgiche; pensiamo infine a quante invocazioni
nascono nel nostro cuore quando percepiamo un pericolo, o siamo colpiti
dall’ansia per il futuro, o siamo già toccati da qualche sintomo di male.
Ebbene, questa variegata forma di richieste al Signore è tutta riassunta e come
condensata in un’unica petizione, quella che dice: “Non metterci alla prova”.
Essa
è generica ed espressa in forma negativa, perché, pur chiedendo soccorso, non
detta le modalità precise dell’aiuto impetrato; chi prega con il Padre Nostro,
confessando la sua debolezza e le sue paure, e indirettamente riconoscendo
anche la scarsa qualità del suo credere, si affida al misericordioso volere del
Padre, che saprà condurre i suoi figli là dove scaturirà il meglio per loro.
L’orante si affida dunque a un disegno che solo Dio conosce, lodando così la
sapiente bontà del Padre; si affida invocando, per esprimere il suo amore per
la vita; si affida fiducioso, sapendo già di essere esaudito persino al di là
di ciò che il suo cuore desidera.
[…]