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domenica 2 settembre 2018

IL LATINO LINGUA “SACRA”?




Uwe Michael Lang, La voce della Chiesa in preghiera. Riflessioni sul linguaggio della liturgia (Strumenti per la riforma 7), Cantagalli 2017. 217 pp.


Questo volume, pubblicato nel maggio dell’anno scorso, è la traduzione dell’originale in lingua inglese (Ignatius Press, San Francisco 2012). Il volume contiene una serie di studi presentati precedentemente su riviste e altre pubblicazioni. Il titolo del libro, in particolare il sottotitolo (“Riflessioni sul linguaggio della liturgia”) promette qualcosa che il lettore trova solo in parte nelle pagine del volume. Infatti l’argomento centrale dell’opera più che il “linguaggio” (verbale e non verbale) della liturgia, è il latino inteso come lingua “sacra” (appellativo mai adoperato da Sacrosanctum Concilium quando parla della lingua latina o di altre lingue usate nella liturgia). Secondo l’Autore, la problematica della “lingua sacra riguarda l’essenza stessa del rito” (p. 184).

Lang ricorda che la liturgia romana nelle sue origini ha adoperato il greco comune e, alla fine del IV secolo, ha fatto il passaggio alla lingua latina. L’Autore Illustra, poi, le caratteristiche del latino cristiano, in particolare quello usato nella liturgia, diverso dal latino della vita quotidiana.

L’ultimo capitolo dell’opera ha come titolo: “Il latino liturgico e il vernacolo nell’età moderna”. Sono documentate le vicende storiche del latino nella liturgia. Tra l’altro, si afferma che i Padri del Concilio di Trento “riconobbero il valore dei testi della liturgia per l’insegnamento ai fedeli in una lingua che fosse per loro comprensibile” (p. 160). Nondimeno Trento ribadisce l’uso del latino nella liturgia, anche per contrastare le idee dei Riformatori, che affermavano che l’uso di un linguaggio non comprensibile all’assemblea era contrario al Vangelo.

Gli sviluppi posteriori al Vaticano II, “andarono ben presto oltre l’ambito ben delimitato della Costituzione sulla sacra liturgia e, di fatto, la liturgia vernacolare si sostituì alla liturgia latina” (p. 162); ricordo che ciò è stato deciso autorevolmente da Paolo VI. Lang, come altri autori dell’area tradizionalista, in questo caso sottolineano che si è andato oltre Sacrosanctum Concilium. Invece quando parlano del Motu proprio Summorum Pontificum che, secondo l’Autore del nostro volume, è stato “il più forte impulso per una rinascita del latino come lingua liturgica” (p. 19), si dimenticano di dire che la Costituzione liturgica non prevede un tale intervento che ricolloca la liturgia nella situazione che il Vaticano II intendeva riformare.

In seguito, l’Autore affronta il problema delle traduzioni e, in questo contesto, enfatizza l’importanza dell’Istruzione Liturgiam authenticam dell’anno 2001, il cui primo frutto nel mondo anglofono è stato la nuova traduzione del Missale Romanum secondo la terza editio typica.

Lang auspica che si riesca ad avere una lingua liturgica “che si distingua dal linguaggio di tutti i giorni e che sia vissuto come la voce della Chiesa in preghiera” (p. 183). E’ un ideale, aggiungo io, che ha bisogno di tempo, come ha avuto bisogno di tempo la transizione della liturgia romana dal greco al latino che fu completata solo dopo più di cento anni (cf. p. 73).