Uwe
Michael Lang, La voce della Chiesa in
preghiera. Riflessioni sul linguaggio della liturgia (Strumenti per la
riforma 7), Cantagalli 2017. 217 pp.
Questo
volume, pubblicato nel maggio dell’anno scorso, è la traduzione dell’originale
in lingua inglese (Ignatius Press, San Francisco 2012). Il volume contiene una
serie di studi presentati precedentemente su riviste e altre pubblicazioni. Il
titolo del libro, in particolare il sottotitolo (“Riflessioni sul linguaggio
della liturgia”) promette qualcosa che il lettore trova solo in parte nelle
pagine del volume. Infatti l’argomento centrale dell’opera più che il “linguaggio”
(verbale e non verbale) della liturgia, è il latino inteso come lingua “sacra”
(appellativo mai adoperato da Sacrosanctum
Concilium quando parla della lingua latina o di altre lingue usate nella
liturgia). Secondo l’Autore, la problematica della “lingua sacra riguarda
l’essenza stessa del rito” (p. 184).
Lang
ricorda che la liturgia romana nelle sue origini ha adoperato il greco comune
e, alla fine del IV secolo, ha fatto il passaggio alla lingua latina. L’Autore Illustra,
poi, le caratteristiche del latino cristiano, in particolare quello usato nella
liturgia, diverso dal latino della vita quotidiana.
L’ultimo
capitolo dell’opera ha come titolo: “Il latino liturgico e il vernacolo
nell’età moderna”. Sono documentate le vicende storiche del latino nella
liturgia. Tra l’altro, si afferma che i Padri del Concilio di Trento
“riconobbero il valore dei testi della liturgia per l’insegnamento ai fedeli in
una lingua che fosse per loro comprensibile” (p. 160). Nondimeno Trento ribadisce
l’uso del latino nella liturgia, anche per contrastare le idee dei Riformatori,
che affermavano che l’uso di un linguaggio non comprensibile all’assemblea era
contrario al Vangelo.
Gli
sviluppi posteriori al Vaticano II, “andarono ben presto oltre l’ambito ben
delimitato della Costituzione sulla sacra liturgia e, di fatto, la liturgia
vernacolare si sostituì alla liturgia latina” (p. 162); ricordo che ciò è stato
deciso autorevolmente da Paolo VI. Lang, come altri autori dell’area
tradizionalista, in questo caso sottolineano che si è andato oltre Sacrosanctum Concilium. Invece quando
parlano del Motu proprio Summorum
Pontificum che, secondo l’Autore del nostro volume, è stato “il più forte
impulso per una rinascita del latino come lingua liturgica” (p. 19), si
dimenticano di dire che la Costituzione liturgica non prevede un tale
intervento che ricolloca la liturgia nella situazione che il Vaticano II
intendeva riformare.
In
seguito, l’Autore affronta il problema delle traduzioni e, in questo contesto,
enfatizza l’importanza dell’Istruzione Liturgiam
authenticam dell’anno 2001, il cui primo frutto nel mondo anglofono è stato la
nuova traduzione del Missale Romanum secondo
la terza editio typica.
Lang
auspica che si riesca ad avere una lingua liturgica “che si distingua dal
linguaggio di tutti i giorni e che sia vissuto come la voce della Chiesa in
preghiera” (p. 183). E’ un ideale, aggiungo io, che ha bisogno di tempo, come
ha avuto bisogno di tempo la transizione della liturgia romana dal greco al
latino che fu completata solo dopo più di cento anni (cf. p. 73).