Es 17,8-13°; Sal 120 (121); 2Tm
3,14-4,2; Lc 18,1-8
La parabola della vedova e il
giudice parla di un preghiera perseverante, continua, assidua. La preghiera
assidua non consiste nel moltiplicare le parole (“Quando pregate, non sprecate
parole come i pagani…”). La perseveranza nella preghiera non è ripetizione
meccanica di parole. Perseverare nella preghiera significa fidarsi di Dio sia
quando ci ascolta sia quando sembra ignorarci.
Nella parabola, la figura
principale non è la vedova, ma il giudice. In primo piano non è l’insistenza
della vedova, ma la prontezza di Dio nel fare giustizia.
L’espressione “fare giustizia”
ricorre quattro volte nella parabola e può essere presa come parola chiave per
la sua interpretazione. Nella Bibbia la vedova è il prototipo della persona
indifesa, debole, povera, e può essere quindi simbolo di tutti i poveri che
domandano giustizia. Se Dio è buono perché l’ingiustizia trionfa nel mondo? Se
Dio è della nostra parte, perché non ascolta le nostre preghiere? Gesù ci
assicura comunque che l’intervento di Dio è certo. Il vero problema – conclude
sorprendentemente Gesù – non è l’intervento di Dio, ma la nostra fede: “Il
Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”
Non si tratta quindi di una
efficacia meccanica della preghiera, quasi che il pregare fosse un’attività
magica. La preghiera è anzitutto un’esperienza profonda di fede e di fiducia in
Dio. Poi quando Gesù ci esorta a “pregare sempre, senza stancarsi”, a “gridare”
e “importunare” non intende indurci a pregare per ottenere favori casuali. Egli
ci spinge a pregare perché il regno di Dio si compia, come ci ricorda il
Padrenostro: “Venga il tuo regno” (Mt 6,33). Tutte le suppliche, anche quelle
dirette alla propria salvezza personale, mirano in ultimo termine alla venuta
del regno di Dio, nel quale la nostra individualità è inserita senza nel
contempo scomparire, e il cui arrivo porta con sé il nostro essere salvati.