Anche di
recente, in prese di posizione di diversa qualità e autorità, si è tornati a
discutere sulla “forma” della comunione eucaristica. A suscitare il dibattito è
stato probabilmente il “presidio sanitario”, che ha indicato la “comunione
sulla mano” come “forma imposta”. Il dibattito che ne è sorto spesso è
diventato molto acceso e addirittura esasperato. Fino a parlare di “sacrilegio”
o di “eresia” per questa forma di recezione della comunione. Di recente Matias
Augé ha fotografato molto bene i limiti del dibattito in una breve ma
acuta riflessione .
Qualche tempo prima il prof. Claudio U. Cortoni aveva recensito con cura
su questo blog un libro molto fragile che manifestava in modo assai chiaro i limiti
spirituali e scientifici di queste letture esasperate della tradizione. Per
fare ulteriore chiarezza in questo ambito vorrei proporre due riflessioni. La
prima viene da circa 50 anni fa, è tratta da un libro di J. Ratzinger, in cui
ripropone alcune riflessioni di carattere spirituale sulla Eucaristia e nel
quale appare una interessante considerazione delle “diverse forme” della
comunione eucaristica. Dopo di ciò vorrei articolare a mia volta una breve
meditazione ulteriore, sulla relazione tra queste diverse forme e sul loro
impatto complesso nella tradizione ecclesiale.
a) Balthasar,
Ratzinger e la dinamica tra mano, bocca e cuore
In un testo
degli anni 80, H.-U. Von Balthasar ( Piccola guida per i cristiani,
Milano, Jaca Book, 1986 (ed. orig. 1980), 111-114) cita J. Ratzinger per
difendere la possibilità che il “fare la comunione” esca dalla esclusiva della
“comunione sulla lingua”. Egli scrive così:
“Prende o dà
scandalo, come ebbe a sentenziare Guardini, chi pretende di aver ragione
adducendo argomenti «penultimi», cioè non perentori. [...] Quel che,
inoltre, i tradizionalisti non considerano, è che quasi tutto il «nuovo»
inserito nel messale di Paolo VI deriva dalle più antiche tradizioni
liturgiche, che il suo pezzo forte, il Canone Romano, è rimasto immutato, che
il ricevere l’ostia nelle mani e in piedi è stato abituale fino al IX secolo e
dei padri della Chiesa ci testimoniano che i fedeli si toccavano devotamente
occhi e orecchie coll’ostia prima di consumarla. Non dovremmo dimenticare, dice
Ratzinger, «che impure sono non le sole nostre mani, ma anche le nostre lingue»
— Giacomo dice che la lingua è il nostro membro più peccaminoso (Gc 3, 2-12) —
«e anche il nostro cuore… Il massimo rischio e nel contempo la massima
espressione della misericorde bontà di Dio è che sia lecito toccare Dio non
solo con le mani e la lingua, ma anche con il cuore» (J. Ratzinger, Eucharistie
— Mitte del Kirche. Vier Predigten, Muenchen, Erich Wewel, 1978, 45) “.
E’ molto
chiara, nel testo di Ratzinger, una serena dinamica di correlazione tra mani,
bocca e cuore, che merita di essere sottoposta ad una analisi ulteriore.
b) La
tradizione del “fare la comunione” e le forme della “fede eucaristica”: dalle mani
fino alle ginocchia e ai piedi
“Prendete e
mangiatene tutti”. La Chiesa si è sempre sentita vincolata da questo doppio
imperativo. L’azione del prendere implica un investimento della mano, l’azione
del mangiare una competenza della bocca. Ma insieme, e da sempre, sia la mano
sia la bocca rimandano oltre se stesse, al cuore, alla mente, all’anima, alla
vita. Dunque tre livelli sono sempre implicati nel “rito di comunione”: quello
della esteriorità della mano, quello del confine tra interno ed esterno che è
la bocca e quello puramente interiore del cuore. Può essere molto utile
considerare le relazioni molteplici e complesse che legano profondamente questi
livelli diversi, tra loro mai contraddittori, bensì polari e in tensione.
Provo a farlo considerando quattro prospettive sotto cui esaminarli.
I. Il
livello antropologico
Il fatto che
il rapporto di intimità con Cristo, con la sua vita e con la sua morte, con il
suo corpo e con il suo sangue, con la sua parola e con la sua azioni, passi
attraverso la competenza delle mani, della bocca e del cuore ci fa ricordare
che l’uomo ha il suo specifico “nella ratio e nelle manus” (Tommaso d’Aquino).
E che ciò che tiene insieme la ragione (ratio) e il tatto (manus) è il
linguaggio, che ha nella bocca il suo organo. La bocca parla e la bocca mangia.
Mangia “per natura” e parla “per cultura”. Ma la “cultura della bocca” è resa
possibile dal fatto che le mani sostituiscono la bocca in tutto ciò che è
“servile”. Solo nel genere umano accade questo miracolo: grazie al “tatto fine”
è possibile all’uomo liberare la bocca da alcune funzioni servili – strappare
le erbe alla terra, azzannare le prede da sbranare – per renderla disponibile
alla parola e così accedere alla ragione. Già sul piano antropologico, dovremmo
dire, noi pensiamo perché parliamo, ma parliamo perché le mani rendono libera
la bocca di accedere alla parola.
II. La
esperienza della “purezza rituale”
La prima
considerazione sul piano antropologico ci permette di rileggere la
questione della “purezza” in modo nuovo. Spesso si sente dire: la mano è
sporca, perché servile, mentre la bocca è pulita. In realtà le cose sono molto
più complesse. Perché la mano tanto facilmente si sporca e tanto facilmente si
lava. Pulire le mani è relativamente facile, anche quando la metafora delle
“mani pulite” diventa un grande problema. La bocca, invece, può sporcarsi molto
più profondamente e per pulirla dalle parole immonde occorre molto più tempo e
procedure molto più complesse. Ancor più questo vale per il cuore: un cuore
sporco, una mente insana, un intelletto distorto richiedono purificazioni,
terapie e sanificazioni che possono durare una vita. La esteriorità della mano
non è sinonimo di “impurità” mentre la interiorità del cuore non equivale a
purezza.
III. Il
processo di trasformazione del soggetto
Il fare comunione
è “storia dei soggetti” in rapporto a Cristo. La tradizione della Chiesa ha
sempre saputo che “prendete e mangiate” si incarna in “forme della
manducazione” che possono essere “sacramentali” o “spirituali”. Mangiare con la
bocca o mangiare col cuore sono “usi del sacramento” – per citare la
terminologia scolastica – che hanno il medesimo contenuto. Ma la forma non è
irrilevante. La forma più semplice è quella “spirituale”. Ma la sua “purezza”,
che implica un investimento corporeo limitatissimo, è anche il suo limite. Una
comunione “solo del cuore” è perciò, allo stesso tempo, il massimo e il minimo
della vita ecclesiale. Per questo un rapporto “sensibile” con il “pane
eucaristico” – ossia un rapporto non solo “di cuore”, ma di mano e di bocca –
ha sempre avuto una sua autorevolezza inaggirabile e fondamentale. Per il
chierico in modo strutturale e feriale, per il semplice battezzato in modo
straordinario e festivo. La “comunione pasquale” ne è stato il segno secolare,
raro ma resistente.
IV. La disciplina
della Chiesa
Su tutto ciò
ha ulteriormente interferito la disciplina ecclesiale, con le sue prassi e le
sue norme. Così per lungo tempo, a partire dal X e XI secolo, si affermata una
prassi in cui solo i sacerdoti prendevano, mangiavano e nutrivano il cuore. Al
popolo di Dio era escluso non solo il “prendere”, ma spesso anche il
“mangiare”. Nutrivano il cuore senza prendere e senza mangiare, se non una
volta l’anno. Nell’ultimo secolo, a partire da Pio X, la “comunione frequente”
– dal 1905 – ha iniziato a cambiare le cose. Non solo il “nutrimento del
cuore”, ma anche il “mangiare con la bocca” è diventato molto più comune.
Ancora più recentemente il “prendere” nella mano ha recuperato il terzo momento
della prassi istitutiva e istituzionale dell’eucaristia. Il sospetto verso
questo arricchimento della mano, rispetto alla bocca e al cuore, deve essere
superato. Nella disciplina ecclesiale è facile identificare il semplice con
puro. Anche nel caso dell’eucaristia una “comunione spirituale” intesa come pienezza
ultima può essere facilmente tradotta in una semplificazione clericale.
L’accesso di tutto il popolo alla pienezza delle azioni eucaristiche – prendere
con la mano, mangiare con la bocca e credere con il cuore – è una grande
“scuola di preghiera” (Paolo VI).
Se volessimo
portare alle estreme conseguenze questo ragionamento dovremmo dire che oltre
alla mano, alla bocca e al cuore la chiesa trova altri due organi della
comunione: le ginocchia e i piedi. In una Chiesa in cui la mano dei fedeli non
è investita di autorità, alla bocca che riceve corrispondono le ginocchia.
Questa è stata per lunghi secoli la forma della “comunione fuori dalla messa”.
Ma quando la comunione torna ad essere parte del rito della messa, alla
ritrovata autorità della mano corrisponde la rinnovata funzione dei “piedi”
nella processione rituale. Non solo le ginocchia, ma anche i piedi sono capaci
di culto e di adorazione. Possono esserlo nella processione di comunione, con
cui la Chiesa riceve sulla mano, mangia con la bocca e crede con il cuore che
la comunione tra Figlio e Padre, nello Spirito, è dono per tutti e tutti
trasforma in “corpo di Cristo”.