GIOVEDI SANTO: MESSA VESPERTINA “IN CENA DOMINI”
1 Aprile 2021
Es
12,1-8.11-14; Sal 115; 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-15
E’
evidente che le preghiere e le letture bibliche della Messa “in cena Domini”,
hanno come tema il fatto dell’istituzione dell’eucaristia. Va però osservato
che questo tema è più rigorosamente proposto se lo si incentra attorno a quello
della “consegna” (in latino: traditio),
e questo secondo un doppio significato: quello della “consegna/tradimento” di
Cristo da parte di Giuda e, in modo particolare, quello della “consegna” che
Gesù fa di se stesso sia nell’evento storico della sua passione e morte, sia
attraverso l’evento rituale della cena/eucaristia.
Nella
nostra riflessione, partiamo dal racconto dell’istituzione dell’eucaristia
riportato da san Paolo nella prima lettura. Dando ai discepoli il pane spezzato
e dicendo loro: “Questo è il mio corpo che è per voi”, Gesù anticipa e
interpreta l’evento della sua passione come consegna totale di se stesso a noi.
Il “corpo” infatti, nel linguaggio biblico, non indica propriamente l’organismo
fisico di una persona, ma essa stessa in quanto capace di esprimersi e di
manifestarsi, la persona nella sua concreta relazionalità con gli altri e con
il mondo e al tempo stesso nella sua condizione di mortalità. Di fatto Gesù ha
interpretato tutta la sua esistenza in chiave di “servizio”, come esprime bene
l’episodio della lavanda dei piedi riportato da Giovanni. Con il suo gesto e le
sue parole sul pane nell’ultima cena, Gesù ha presentato per così dire ai
discepoli – sia pure in modo velato e misterioso – il significato della sua
morte quale supremo atto di donazione di se stesso, nella logica di quella
radicale carità che egli aveva costantemente predicato: “Vi do un comandamento
nuovo: come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (canto
al vangelo).
La
morte di Gesù in croce rappresenta l’estrema attuazione del dono di se stesso
che Gesù ha compiuto, vivendo fino in fondo la logica dell’amore totale e senza
condizioni per il Padre e per gli uomini. Ma questo dono non rimane solo un
gesto eroico e commovente, che però esaurisce il suo senso nel compiersi come
atto espressivo di amore. E’ invece un fatto da cui deriva un reale beneficio
per noi, un grande bene. Gesù fa dono di se stesso “per noi”. Lo ha fatto
nell’evento della sua morte in croce, e lo ha fatto nel sacramento
dell’eucaristia. In ciò che è avvenuto sul calvario e in ciò che Gesù ha fatto
nell’ultima cena è in gioco la stessa realtà di fondo. Il senso più profondo di
ciò che è avvenuto sul calvario, è il dono totale di se stesso che Gesù ha
compiuto una volta per sempre, in modo definitivo, nella morte liberamente
accettata. Questa stessa realtà, il dono di se stesso per noi, è la verità
profonda di ciò che Gesù ha fatto nell’ultima cena. Di questa realtà Gesù ha
fatto il suo “testamento”. Dicendo “ogni volta che mangiate questo pane e bevete
questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”, Gesù ha
lasciato in eredità a tutta la Chiesa lungo i secoli, come realtà perennemente
presente nel gesto rituale dell’eucaristia, quel dono di se stesso e della sua
vita per noi, che egli portò all’estremo compimento sul piano storico nella sua
passione e morte.
La
liturgia del Giovedì santo celebra l’eucaristia, memoriale della Pasqua di
Cristo, sacramento del suo amore infinito per noi e di quello che dobbiamo
avere gli uni per gli altri, e l’istituzione del ministero sacerdotale, che
deve essere compreso ed esercitato, sull’esempio del Signore, come servizio dei
fratelli e delle sorelle nella comunità. Come dice la colletta della messa,
“dalla partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di
vita”.
VENERDI’
SANTO: PASSIONE DEL SIGNORE – 2 Aprile 2021
Is 52,13-53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1-19,42
Il
racconto della passione secondo Giovanni va letto alla luce delle altre due
letture. Il brano d’Isaia mostra il volto di un personaggio misterioso,
sfigurato e macerato, oppresso da spaventose sofferenze e sottoposto alle più
odiose persecuzioni, disprezzato dagli uomini, percosso a morte e
apparentemente abbandonato dallo stesso Dio. In realtà, però, la sua sofferenza
è feconda: egli offre se stesso per il peccato delle moltitudini, e il Signore ne
fa il capo di un innumerevole popolo di giustificati. Qualunque sia nel testo
profetico l’identità di questo “Servo di Dio”, la liturgia del Venerdì santo ce
lo propone come immagine del Cristo, il giusto oltraggiato, la cui morte ha
salvato gli uomini dal peccato e che Dio ha esaltato nella sua gloria. La
seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei, esalta la grandezza e
l’efficacia dell’offerta sacrificale del Cristo, intronizzato presso Dio come
“il sommo sacerdote” per eccellenza, diventato per sua obbedienza “causa di
salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”.
Le
due prime letture sono tipologicamente collegate tramite una prospettiva
cristologica: in primo piano si vuole porre il sacrificio pasquale di Cristo,
presentato come momento culminante del culto perfetto e definitivo reso al
Padre e causa di unità e riscatto per tutto il popolo. Il salmo responsoriale
con il ritornello “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” commenta e
sintetizza la prospettiva che comanda la scelta delle due letture; il canto al
Vangelo (Fil 2,8-9) anticipa l’annuncio del mistero di morte e di gloria che
verrà proclamato nel brano evangelico.
Il
racconto della passione e morte del Cristo secondo Giovanni, pur ricalcando la
tradizione precedente testimoniata dagli altri evangelisti, è costruito con
un’angolazione di lettura degli eventi molto diversa che riflette un modo
differente di rileggere il quarto canto del Servo di Dio di Isaia, proposto
come prima lettura. Mentre Matteo, Marco e Luca fanno forza sulle umiliazioni e
sofferenze del Servo di Dio, Giovanni mette l’accento sulla glorificazione ed
esaltazione dello stesso Servo. L’evangelista legge gli eventi tenendo d’occhio
il risultato finale. Non c’è da meravigliarsi se qualche studioso della Bibbia
abbia intitolato l’intero racconto giovanneo della passione e morte di Gesù:
“Il libro della gloria”. Così vediamo che nel suo racconto, Giovanni sottolinea
che Gesù va liberamente incontro alla croce: non è un “consegnato”, ma “uno che
si consegna”. E’ Egli che dirige gli eventi, non gli uomini che l’hanno
catturato. Egli è sì sofferente, ma immerso in un alone di maestà e di gloria
fino alla fine quando pronuncia con calma e solennità le sue ultime parole: “E’
compiuto”. Giovanni intende in tutta la vicenda della passione ricordare che
l’umiliato è già il vincitore. Certamente egli racconta prima la passione e poi
la risurrezione. Tuttavia sovrappone l’umiliazione e la gloria. Durante la
passione Gesù è già il Figlio di Dio, e questa convinzione trasfigura ogni
racconto: colui che è arrestato è in realtà il vincitore, colui che è
processato è in realtà il giudice, il Crocifisso è già il glorificato. Per
Giovanni la Croce è lo specchio della gloria.
La
liturgia del Venerdì santo non separa mai le due sponde degli eventi pasquali.
Così, ad esempio, nell’adorazione della Croce, uno dei momenti culminanti della
celebrazione, la Chiesa canta: “Adoriamo la tua Croce, Signore, lodiamo e
glorifichiamo la tua santa risurrezione. Dal legno della Croce è venuta la
gioia in tutto il mondo”. In modo simile si esprimono la preghiera dopo la
comunione e la benedizione finale.
VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA – 4 Aprile 2021
Gn
1,1-2,2; dal Sal 103, oppure dal Sal 32 - Gn 22,1-18; dal Sal 15 - Es
14,15-15,1; da Es 15,1-18 - Is 54,5-14; dal Sal 29 - Is 55,1-11; da Is 12,2-6 -
Bar 3,9-15.32 - 4,4; dal Sal 18 - Ez 36,16-17a.18-28; dai Sal 41, oppure
(quando si celebra il battesimo) da Is 12,2-6, oppure dal Sal 50 - Rm 6,3-11;
dal Sal 117; Mc 16,1-7.
Dopo
i sette brani dell’Antico Testamento, con i rispettivi salmi responsoriali, si
legge un breve passo della Lettera di san Paolo ai Romani, il relativo salmo
responsoriale e, in seguito, nell’Anno B, si proclama il vangelo della
risurrezione secondo Marco. Le letture dell’Antico Testamento possono essere
ridotte a tre e, in casi particolari, solo a due; ma non dev’essere mai
tralasciata la lettura dell’Esodo sul passaggio del Mar Rosso. Il nuovo “esodo”
si verifica prima di tutto nel Cristo, nel suo passaggio dalla morte alla vita,
dal mondo al Padre, dall’umiliazione alla gloria. E’ questa la Pasqua di
Cristo, che diventa Pasqua di tutti noi nel fonte battesimale, in cui siamo
stati liberati dalla schiavitù del peccato affinché “possiamo camminare in una
vita nuova” (epistola).
La
Veglia pasquale, che sant’Agostino chiama “madre di tutte le veglie”, è il
cuore dell’anno liturgico, da cui si irradia ogni altra celebrazione. Colta
nella sua globalità, con i gesti, i simboli e i testi che la differenziano da
tutte le altre celebrazioni cristiane, è la più grande catechesi della storia
della salvezza. Noi qui ci limitiamo ad una breve riflessione sul racconto del
vangelo di san Marco, il brano evangelico che viene proclamato nell’Anno B del
Lezionario.
Maria
di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salòme, le tre donne che nel mattino del
primo giorno della settimana si recarono al sepolcro, sono le stesse che sul
Golgota assistettero da lontano alla morte di Gesù. Queste tre donne, passato
il sabato comprarono oli aromatici per ungere il corpo di Gesù, e al mattino
presto si recarono al sepolcro per compiere su Gesù il rito dell’unzione del
suo corpo che ancora non era stato fatto. Entrate nel sepolcro, trovarono un
giovane vestito di una veste bianca, seduto sulla destra, ed “ebbero paura”
dice Marco. E’ l’atteggiamento di chi è consapevole di trovarsi di fronte ad
un’epifania divina: il mistero appare come un realtà terribile che svela la
distanza infinita tra il Creatore e la creatura. Ora le donne sono messe in contatto
con la rivelazione stessa di Dio che mostra loro la straordinaria potenza della
risurrezione all’interno della vicenda umana. Ma il giovane le rassicura: “Non
abbiate paura! […] Gesù è risorto…” E aggiunge: “Andate, dite ai suoi discepoli
e a Pietro: ‘Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto’ ”. Le
donne, ancora terrorizzate, sono incapaci di pronunciare una sola parola, ma
compiono la loro missione. Per Marco non sono le donne le testimoni dell’
“inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1). I testimoni su
cui si fonda la nostra fede sono i discepoli e Pietro in modo particolare.
Il
nucleo del Vangelo, come “buona notizia” proclamata fin dall’inizio ai giudei e
greci, è racchiuso in queste parole: “Cristo è risorto dai morti”. La
risurrezione di Gesù è un evento che si radica nella storia, ma che può essere
conosciuto solo nella fede. La risurrezione è un atto di Dio e l’agire di Dio è
oggetto di fede non di indagine storica. La fede è un cammino pasquale di morte
a se stessi, alle proprie certezze, alle proprie evidenze, per nascere alla
verità di Dio e del suo messaggio. Sembra talvolta però che il Gesù in cui
crediamo sia ancora morto. Gesù è morto quando lo teniamo fuori dalla nostra
vita, morto se la sua Parola non trasforma profondamente i nostri cuori. Gesù è
morto e sepolto quando la nostra diventa una religione senza fede, un quieto
nonché ambiguo appartenere alla cultura cristiana senza che il fuoco della sua
presenza contagi la nostra e altrui vita.
DOMENICA
DI PASQUA: RISURREZIONE DEL SIGNORE – MESSA DEL GIORNO
4
Aprile 2021
At 10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4 (oppure: 1Cor 5,6b-8); Gv 20,1-9 (nella messa vespertina: Lc 24,13-35)
Il
salmo responsoriale è tratto dal Sal 117, un inno di gioia e di vittoria,
proclamato in ogni celebrazione eucaristica della settimana pasquale e nella
liturgia delle ore di ogni domenica. Il salmo forma parte del “hallel
egiziano”, così chiamato perché si cantava specialmente in occasione del
memoriale della liberazione degli Israeliti dall’Egitto, durante il sacrifico
dell’agnello e durante la cena pasquale. La liturgia della domenica di Pasqua
ci ricorda che il nostro agnello pasquale è Cristo (cf. seconda lettura
alternativa, sequenza, prefazione pasquale I e antifona alla comunione); nel
mistero della sua risurrezione dai morti si compiono tutte le speranze di
salvezza dell’umanità: è questo il giorno di Cristo Signore. La risurrezione di
Cristo dai morti rappresenta il centro del mistero cristiano, è la base e la
sostanza della nostra fede. “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la
nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Con queste
parole l’apostolo Paolo esprime il cuore di tutto il messaggio cristiano.
Nella
prima lettura, ascoltiamo san Pietro che annuncia con decisione al popolo il
mistero della risurrezione del Signore di cui egli e gli altri apostoli sono
testimoni. Nella seconda lettura, san Paolo trae da questo evento le
conseguenze per una vita cristiana rinnovata. Ci soffermiamo sul brano
evangelico (Gv 20,1-9), che racconta lo stupore di Maria di Màgdala e di Pietro
e dell’ “altro discepolo, quello che Gesù amava”, dinanzi al sepolcro vuoto.
Nel racconto si sottolinea anzitutto l’itinerario di fede di Maria e dei due
discepoli nel Cristo risorto, una fede che non si impone come un’evidenza, ma
nasce a partire da “segni” che bisogna decifrare. In primo luogo, l’itinerario
di fede di Maria di Màgdala, che giunge di buon mattino al sepolcro “quando era
ancora buio”. Sembra una donna avvolta nelle tenebre dell’incredulità: appena
vede che la pietra è stata tolta, neppure lontanamente è sfiorata dall’idea
della risurrezione; subito pensa e corre a dirlo a due discepoli: “Hanno
portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Poi
Maria ritorna al sepolcro: vede Gesù, ma lo confonde col giardiniere. Lo
riconosce solo quando Gesù la chiama per nome (cf. Gv 20,11-18). Il racconto di
Giovanni tende a relativizzare il vedere e, anche, l’esperienza del Gesù
terrestre. Non basta vedere il Signore per riconoscerlo; è Lui che deve
svelarsi.
L’itinerario
di fede dei due discepoli ha altre caratteristiche, almeno quello del discepolo
che Gesù amava. Simon Pietro guarda stupito, constatando che il corpo non è più
nel sepolcro, ma che vi sono rimasti, accuratamente piegati, il lenzuolo e il
sudario. L’altro discepolo, invece, vede e crede immediatamente. Non ha bisogno
di vedere Gesù per credere. Egli constata che Gesù non è avvolto dai panni
funebri. Quindi è vivo. Il racconto evangelico conclude con queste parole:
“Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva
risorgere dai morti”. E’ sempre alla luce della Scrittura che si rivela il
senso dei segni, eclatanti o modesti, e che lo sguardo si apre alle cose della
fede.
La
risurrezione di Cristo, vertice del mistero della fede, inaugura l’era della
salvezza offerta a tutti gli uomini. Chiunque crede nel Risorto riceve fin
d’ora il perdono dei peccati, e vive in attesa che il Signore vincitore della
morte si manifesti come “giudice dei vivi e dei morti”. Tale è, in tutta la sua
ampiezza, l’oggetto della fede apostolica e della celebrazione pasquale.