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martedì 30 marzo 2021

TRIDUO SACRO

 



GIOVEDI SANTO: MESSA VESPERTINA “IN CENA DOMINI”

1 Aprile 2021


Es 12,1-8.11-14; Sal 115; 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-15

 

E’ evidente che le preghiere e le letture bibliche della Messa in cena Domini”, hanno come tema il fatto dell’istituzione dell’eucaristia. Va però osservato che questo tema è più rigorosamente proposto se lo si incentra attorno a quello della “consegna” (in latino: traditio), e questo secondo un doppio significato: quello della “consegna/tradimento” di Cristo da parte di Giuda e, in modo particolare, quello della “consegna” che Gesù fa di se stesso sia nell’evento storico della sua passione e morte, sia attraverso l’evento rituale della cena/eucaristia.

 

Nella nostra riflessione, partiamo dal racconto dell’istituzione dell’eucaristia riportato da san Paolo nella prima lettura. Dando ai discepoli il pane spezzato e dicendo loro: “Questo è il mio corpo che è per voi”, Gesù anticipa e interpreta l’evento della sua passione come consegna totale di se stesso a noi. Il “corpo” infatti, nel linguaggio biblico, non indica propriamente l’organismo fisico di una persona, ma essa stessa in quanto capace di esprimersi e di manifestarsi, la persona nella sua concreta relazionalità con gli altri e con il mondo e al tempo stesso nella sua condizione di mortalità. Di fatto Gesù ha interpretato tutta la sua esistenza in chiave di “servizio”, come esprime bene l’episodio della lavanda dei piedi riportato da Giovanni. Con il suo gesto e le sue parole sul pane nell’ultima cena, Gesù ha presentato per così dire ai discepoli – sia pure in modo velato e misterioso – il significato della sua morte quale supremo atto di donazione di se stesso, nella logica di quella radicale carità che egli aveva costantemente predicato: “Vi do un comandamento nuovo: come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (canto al vangelo).

 

La morte di Gesù in croce rappresenta l’estrema attuazione del dono di se stesso che Gesù ha compiuto, vivendo fino in fondo la logica dell’amore totale e senza condizioni per il Padre e per gli uomini. Ma questo dono non rimane solo un gesto eroico e commovente, che però esaurisce il suo senso nel compiersi come atto espressivo di amore. E’ invece un fatto da cui deriva un reale beneficio per noi, un grande bene. Gesù fa dono di se stesso “per noi”. Lo ha fatto nell’evento della sua morte in croce, e lo ha fatto nel sacramento dell’eucaristia. In ciò che è avvenuto sul calvario e in ciò che Gesù ha fatto nell’ultima cena è in gioco la stessa realtà di fondo. Il senso più profondo di ciò che è avvenuto sul calvario, è il dono totale di se stesso che Gesù ha compiuto una volta per sempre, in modo definitivo, nella morte liberamente accettata. Questa stessa realtà, il dono di se stesso per noi, è la verità profonda di ciò che Gesù ha fatto nell’ultima cena. Di questa realtà Gesù ha fatto il suo “testamento”. Dicendo “ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”, Gesù ha lasciato in eredità a tutta la Chiesa lungo i secoli, come realtà perennemente presente nel gesto rituale dell’eucaristia, quel dono di se stesso e della sua vita per noi, che egli portò all’estremo compimento sul piano storico nella sua passione e morte. 

 

La liturgia del Giovedì santo celebra l’eucaristia, memoriale della Pasqua di Cristo, sacramento del suo amore infinito per noi e di quello che dobbiamo avere gli uni per gli altri, e l’istituzione del ministero sacerdotale, che deve essere compreso ed esercitato, sull’esempio del Signore, come servizio dei fratelli e delle sorelle nella comunità. Come dice la colletta della messa, “dalla partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di vita”.

 

 

VENERDI’ SANTO: PASSIONE DEL SIGNORE – 2 Aprile 2021

 

Is 52,13-53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1-19,42

 

Il racconto della passione secondo Giovanni va letto alla luce delle altre due letture. Il brano d’Isaia mostra il volto di un personaggio misterioso, sfigurato e macerato, oppresso da spaventose sofferenze e sottoposto alle più odiose persecuzioni, disprezzato dagli uomini, percosso a morte e apparentemente abbandonato dallo stesso Dio. In realtà, però, la sua sofferenza è feconda: egli offre se stesso per il peccato delle moltitudini, e il Signore ne fa il capo di un innumerevole popolo di giustificati. Qualunque sia nel testo profetico l’identità di questo “Servo di Dio”, la liturgia del Venerdì santo ce lo propone come immagine del Cristo, il giusto oltraggiato, la cui morte ha salvato gli uomini dal peccato e che Dio ha esaltato nella sua gloria. La seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei, esalta la grandezza e l’efficacia dell’offerta sacrificale del Cristo, intronizzato presso Dio come “il sommo sacerdote” per eccellenza, diventato per sua obbedienza “causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”.

 

Le due prime letture sono tipologicamente collegate tramite una prospettiva cristologica: in primo piano si vuole porre il sacrificio pasquale di Cristo, presentato come momento culminante del culto perfetto e definitivo reso al Padre e causa di unità e riscatto per tutto il popolo. Il salmo responsoriale con il ritornello “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” commenta e sintetizza la prospettiva che comanda la scelta delle due letture; il canto al Vangelo (Fil 2,8-9) anticipa l’annuncio del mistero di morte e di gloria che verrà proclamato nel brano evangelico.

 

Il racconto della passione e morte del Cristo secondo Giovanni, pur ricalcando la tradizione precedente testimoniata dagli altri evangelisti, è costruito con un’angolazione di lettura degli eventi molto diversa che riflette un modo differente di rileggere il quarto canto del Servo di Dio di Isaia, proposto come prima lettura. Mentre Matteo, Marco e Luca fanno forza sulle umiliazioni e sofferenze del Servo di Dio, Giovanni mette l’accento sulla glorificazione ed esaltazione dello stesso Servo. L’evangelista legge gli eventi tenendo d’occhio il risultato finale. Non c’è da meravigliarsi se qualche studioso della Bibbia abbia intitolato l’intero racconto giovanneo della passione e morte di Gesù: “Il libro della gloria”. Così vediamo che nel suo racconto, Giovanni sottolinea che Gesù va liberamente incontro alla croce: non è un “consegnato”, ma “uno che si consegna”. E’ Egli che dirige gli eventi, non gli uomini che l’hanno catturato. Egli è sì sofferente, ma immerso in un alone di maestà e di gloria fino alla fine quando pronuncia con calma e solennità le sue ultime parole: “E’ compiuto”. Giovanni intende in tutta la vicenda della passione ricordare che l’umiliato è già il vincitore. Certamente egli racconta prima la passione e poi la risurrezione. Tuttavia sovrappone l’umiliazione e la gloria. Durante la passione Gesù è già il Figlio di Dio, e questa convinzione trasfigura ogni racconto: colui che è arrestato è in realtà il vincitore, colui che è processato è in realtà il giudice, il Crocifisso è già il glorificato. Per Giovanni la Croce è lo specchio della gloria.

 

La liturgia del Venerdì santo non separa mai le due sponde degli eventi pasquali. Così, ad esempio, nell’adorazione della Croce, uno dei momenti culminanti della celebrazione, la Chiesa canta: “Adoriamo la tua Croce, Signore, lodiamo e glorifichiamo la tua santa risurrezione. Dal legno della Croce è venuta la gioia in tutto il mondo”. In modo simile si esprimono la preghiera dopo la comunione e la benedizione finale.

 

  

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA – 4 Aprile 2021

 

Gn 1,1-2,2; dal Sal 103, oppure dal Sal 32 - Gn 22,1-18; dal Sal 15 - Es 14,15-15,1; da Es 15,1-18 - Is 54,5-14; dal Sal 29 - Is 55,1-11; da Is 12,2-6 - Bar 3,9-15.32 - 4,4; dal Sal 18 - Ez 36,16-17a.18-28; dai Sal 41, oppure (quando si celebra il battesimo) da Is 12,2-6, oppure dal Sal 50 - Rm 6,3-11; dal Sal 117; Mc 16,1-7.

 

Dopo i sette brani dell’Antico Testamento, con i rispettivi salmi responsoriali, si legge un breve passo della Lettera di san Paolo ai Romani, il relativo salmo responsoriale e, in seguito, nell’Anno B, si proclama il vangelo della risurrezione secondo Marco. Le letture dell’Antico Testamento possono essere ridotte a tre e, in casi particolari, solo a due; ma non dev’essere mai tralasciata la lettura dell’Esodo sul passaggio del Mar Rosso. Il nuovo “esodo” si verifica prima di tutto nel Cristo, nel suo passaggio dalla morte alla vita, dal mondo al Padre, dall’umiliazione alla gloria. E’ questa la Pasqua di Cristo, che diventa Pasqua di tutti noi nel fonte battesimale, in cui siamo stati liberati dalla schiavitù del peccato affinché “possiamo camminare in una vita nuova” (epistola).

 

La Veglia pasquale, che sant’Agostino chiama “madre di tutte le veglie”, è il cuore dell’anno liturgico, da cui si irradia ogni altra celebrazione. Colta nella sua globalità, con i gesti, i simboli e i testi che la differenziano da tutte le altre celebrazioni cristiane, è la più grande catechesi della storia della salvezza. Noi qui ci limitiamo ad una breve riflessione sul racconto del vangelo di san Marco, il brano evangelico che viene proclamato nell’Anno B del Lezionario.

 

Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salòme, le tre donne che nel mattino del primo giorno della settimana si recarono al sepolcro, sono le stesse che sul Golgota assistettero da lontano alla morte di Gesù. Queste tre donne, passato il sabato comprarono oli aromatici per ungere il corpo di Gesù, e al mattino presto si recarono al sepolcro per compiere su Gesù il rito dell’unzione del suo corpo che ancora non era stato fatto. Entrate nel sepolcro, trovarono un giovane vestito di una veste bianca, seduto sulla destra, ed “ebbero paura” dice Marco. E’ l’atteggiamento di chi è consapevole di trovarsi di fronte ad un’epifania divina: il mistero appare come un realtà terribile che svela la distanza infinita tra il Creatore e la creatura. Ora le donne sono messe in contatto con la rivelazione stessa di Dio che mostra loro la straordinaria potenza della risurrezione all’interno della vicenda umana. Ma il giovane le rassicura: “Non abbiate paura! […] Gesù è risorto…” E aggiunge: “Andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: ‘Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto’ ”. Le donne, ancora terrorizzate, sono incapaci di pronunciare una sola parola, ma compiono la loro missione. Per Marco non sono le donne le testimoni dell’ “inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1). I testimoni su cui si fonda la nostra fede sono i discepoli e Pietro in modo particolare.

 

Il nucleo del Vangelo, come “buona notizia” proclamata fin dall’inizio ai giudei e greci, è racchiuso in queste parole: “Cristo è risorto dai morti”. La risurrezione di Gesù è un evento che si radica nella storia, ma che può essere conosciuto solo nella fede. La risurrezione è un atto di Dio e l’agire di Dio è oggetto di fede non di indagine storica. La fede è un cammino pasquale di morte a se stessi, alle proprie certezze, alle proprie evidenze, per nascere alla verità di Dio e del suo messaggio. Sembra talvolta però che il Gesù in cui crediamo sia ancora morto. Gesù è morto quando lo teniamo fuori dalla nostra vita, morto se la sua Parola non trasforma profondamente i nostri cuori. Gesù è morto e sepolto quando la nostra diventa una religione senza fede, un quieto nonché ambiguo appartenere alla cultura cristiana senza che il fuoco della sua presenza contagi la nostra e altrui vita.

 

  

DOMENICA DI PASQUA: RISURREZIONE DEL SIGNORE – MESSA DEL GIORNO

4 Aprile 2021

 

At 10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4 (oppure: 1Cor 5,6b-8); Gv 20,1-9 (nella messa vespertina: Lc 24,13-35)

 

Il salmo responsoriale è tratto dal Sal 117, un inno di gioia e di vittoria, proclamato in ogni celebrazione eucaristica della settimana pasquale e nella liturgia delle ore di ogni domenica. Il salmo forma parte del “hallel egiziano”, così chiamato perché si cantava specialmente in occasione del memoriale della liberazione degli Israeliti dall’Egitto, durante il sacrifico dell’agnello e durante la cena pasquale. La liturgia della domenica di Pasqua ci ricorda che il nostro agnello pasquale è Cristo (cf. seconda lettura alternativa, sequenza, prefazione pasquale I e antifona alla comunione); nel mistero della sua risurrezione dai morti si compiono tutte le speranze di salvezza dell’umanità: è questo il giorno di Cristo Signore. La risurrezione di Cristo dai morti rappresenta il centro del mistero cristiano, è la base e la sostanza della nostra fede. “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Con queste parole l’apostolo Paolo esprime il cuore di tutto il messaggio cristiano.

 

Nella prima lettura, ascoltiamo san Pietro che annuncia con decisione al popolo il mistero della risurrezione del Signore di cui egli e gli altri apostoli sono testimoni. Nella seconda lettura, san Paolo trae da questo evento le conseguenze per una vita cristiana rinnovata. Ci soffermiamo sul brano evangelico (Gv 20,1-9), che racconta lo stupore di Maria di Màgdala e di Pietro e dell’ “altro discepolo, quello che Gesù amava”, dinanzi al sepolcro vuoto. Nel racconto si sottolinea anzitutto l’itinerario di fede di Maria e dei due discepoli nel Cristo risorto, una fede che non si impone come un’evidenza, ma nasce a partire da “segni” che bisogna decifrare. In primo luogo, l’itinerario di fede di Maria di Màgdala, che giunge di buon mattino al sepolcro “quando era ancora buio”. Sembra una donna avvolta nelle tenebre dell’incredulità: appena vede che la pietra è stata tolta, neppure lontanamente è sfiorata dall’idea della risurrezione; subito pensa e corre a dirlo a due discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Poi Maria ritorna al sepolcro: vede Gesù, ma lo confonde col giardiniere. Lo riconosce solo quando Gesù la chiama per nome (cf. Gv 20,11-18). Il racconto di Giovanni tende a relativizzare il vedere e, anche, l’esperienza del Gesù terrestre. Non basta vedere il Signore per riconoscerlo; è Lui che deve svelarsi.

 

L’itinerario di fede dei due discepoli ha altre caratteristiche, almeno quello del discepolo che Gesù amava. Simon Pietro guarda stupito, constatando che il corpo non è più nel sepolcro, ma che vi sono rimasti, accuratamente piegati, il lenzuolo e il sudario. L’altro discepolo, invece, vede e crede immediatamente. Non ha bisogno di vedere Gesù per credere. Egli constata che Gesù non è avvolto dai panni funebri. Quindi è vivo. Il racconto evangelico conclude con queste parole: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”. E’ sempre alla luce della Scrittura che si rivela il senso dei segni, eclatanti o modesti, e che lo sguardo si apre alle cose della fede.    

          

La risurrezione di Cristo, vertice del mistero della fede, inaugura l’era della salvezza offerta a tutti gli uomini. Chiunque crede nel Risorto riceve fin d’ora il perdono dei peccati, e vive in attesa che il Signore vincitore della morte si manifesti come “giudice dei vivi e dei morti”. Tale è, in tutta la sua ampiezza, l’oggetto della fede apostolica e della celebrazione pasquale.