1Dal profondo a te grido, o Signore;
2Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica.
3Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi ti può resistere?
4Ma con te è il perdono,
così avremo il tuo timore.
5Io spero, Signore.
Spera l’anima mia, attendo la sua parola.
6L'anima mia è rivolta al Signore.
Più che le sentinelle l'aurora.
7Israele attenda il Signore,
perché con il Signore è la misericordia
e grande è con lui la redenzione.
8Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe.
È
uno dei salmi più noti e amati, collocato nella sequenza dei cosiddetti canti
delle salite o dei pellegrinaggi. Una struttura possibile del salmo sarebbe
(tenendo conto che nei primi quattro versetti ci si rivolge al Signore, e negli
ultimi quattro alla comunità): ardente invocazione del Signore (vv. 1-2);
confessione delle colpe e richiesta di perdono perché si viva in comunione con
il Signore (vv. 3-4); speranza e attesa, come espressione vitale della fede
dell’orante (vv. 5-7a); esortazione alla comunità affinché condivida la stessa
attesa della redenzione (vv. 7b-8).
Il
salmo, anche se non si può ridurre ad una dimensione penitenziale, nella
tradizione cristiana è il sesto della serie dei salmi penitenziali. Ci ricorda
che la vera lotta da farsi è contro sé stessi, che il vero nemico non sono gli
altri, nemmeno i nostri persecutori, bensì quelle suggestioni che ci lusingano
e vorrebbero indurci ad affondare negli abissi del peccato, che è sempre
rottura di comunione con il Signore e con i fratelli e sorelle. Questa è la
vera minaccia per ciascuno di noi e per l’intera comunità ecclesiale,
inestricabilmente uniti, come esprime bene l’inclusione testuale: “Dal profondo
a te grido, Signore… Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe” (vv. 1 e 8).
L’orante
si rivolge al Signore “dal profondo” (v. 1) o “dalle profondità” (come dice il
latino “de profundis”). Parte della
tradizione ebraica ha inteso questa profondità in riferimento all’esilio
babilonese. Ciascuno di noi, nel riprendere questa preghiera può pensare alle
profondità del suo cuore, della sua esistenza minacciata dalla morte, della sua
storia personale e sociale, insidiata dal peccato. Solo quando si va a fondo si
scoprono le fondamenta e si può davvero cominciare a risalire. Dal profondo
della miseria spirituale, l’orante grida al Signore: “Signore, ascolta la mia voce…” (v. 2). Ecco
allora emergere una lucida presa di coscienza, in forma di domanda: “Se
consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti può resistere?” (v. 3). È come se
dicesse con parole di un altro salmo, il Sal 143,2: “Non entrare in giudizio
con il tuo servo: davanti a te nessun vivente è giusto”. Tale consapevolezza
non è però fonte di paura, anzi, un’espressione di fiducia affiora nell’animo:
più grande della colpa è il perdono di Dio che matura in noi il timore verso di
lui: “Ma con te è il perdono, così avremo il tuo timore” (v. 4). Il verbo
“temere” nel linguaggio della Scrittura non è connesso, come avviene nella
nostra cultura, con l’idea della paura, dello spavento, ma con l’idea della
venerazione, dell’adorazione, atteggiamenti con cui il credente si apre al
mistero di Dio per vivere con gioia ed esultanza alla sua presenza, “davanti al
suo volto” (cf. Sal 100,2). Il timore di Dio nasce non dal giudizio, ma dal
perdono. Più che la collera di Dio deve generare timore e dolore il suo amore
disarmante.
Prima
di concludere, il salmista sente il dovere di rivolgersi a tutta la comunità,
esortandola alla stessa attesa fiduciosa del Signore. E questo perché? Ancora
una volta, perché l’amore del Signore precede e guida ogni vivente: “perché con il Signore è la misericordia e
grande è con lui la redenzione” (v. 7). Quando si prega si è sempre solidali
con tutti i fratelli e sorelle con i quali si condivide il cammino di ricerca e
di incontro con Dio.
Un
antico titolo dato a questo salmo ne sottolinea la sua dimensione cristologica
e quindi cristiana: “Cristo, non guardando alle nostre colpe, ci dona il
perdono dei peccati” (cf. P. Salmon, Les
“tituli Psalmorum” des manuscrits latins, Paris 1959). La riflessione del
Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa sviluppa ampiamente i tre vocaboli
chiavi del nostro salmo, applicandoli a Cristo: perdono, misericordia,
redenzione.
Nel
Nuovo Testamento Gesù è presentato come “l’agnello che toglie i peccati del
mondo”, e con il sacrificio della sua vita egli consegue il perdono di tutti i peccati
dell’umanità: “È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non
soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2,1-2).
Rivendica a sé il potere di perdonare i peccati, e perdona i suoi stessi
nemici. Dice di perdonare “fino a settanta volte sette”, e nella preghiera
insegna a dire: “rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai
nostri debitori” (Mt 6,12).
Gesù
è il volto della misericordia divina.
La lettera agli Ebrei lo chiama “sommo sacerdote misericordioso” (Eb 2,17). La
misericordia di Gesù testimoniata in modo generale alle folle (Mt 9,36; 14,14;
15,32), in Luca assume un volto più personale: concerne il “figlio unico” di
una vedova (Lc 7,13) o un padre piangente per la sua figlia che sta per morire
(Lc 8,42) o un altro padre supplicante per il suo figlio epilettico (Lc
9,38.42). Gesù infine testimonia una benevolenza particolare verso le donne e
gli stranieri. Di questo volto della misericordia divina che mostrava
attraverso i suoi atti, Gesù ha voluto dipingerne i tratti; sono significative al
riguardo le tre parabole di Lc 15: la pecora smarrita; la moneta perduta; il
padre misericordioso (o il figliol prodigo).
San
Paolo dice ai cristiani di Corinto: “… voi siete in Cristo Gesù, il quale per
noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione” (1Cor 1,30). Gesù “non è
venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per
molti” (Mt 20,28). Alla immolazione di vittime senza ragione, tipica
dell’Antico Testamento, succede il sacrificio personale e volontario del servo
di YHWH che “ha spogliato se stesso fino alla morte” (Is 53,12). Gesù “ci ha
riscattato per Dio con il suo sangue” (Ap 5,9).
La
tradizione della Chiesa adopera questo salmo come preghiera per i fedeli
defunti. Chi prega fa propria, nella fede, la condizione di chi ha lasciato
questo mondo e dalle profondità della morte invoca il Dio presso il quale è il
perdono e l’amore, il Dio che ha risuscitato Gesù dai morti e che con il suo
perdono chiama ogni uomo a essere pienamente partecipe della gloria del Cristo
risorto per vivere in eterno davanti al suo volto. La confessione del Signore
presso il quale è il perdono e l’amore ha guidato, inoltre, la tradizione
cristiana a annoverare il Sal 130 nel gruppo dei “Salmi penitenziali”. In questa
prospettiva il salmo orienta l’orante, ciascuno di noi, a non rimanere nella
tristezza di chi si trova nelle profondità della colpa, ma ad innalzarsi alla
comunione con Dio per trovare in lui e con lui la grazia del perdono e la gioia
del suo amore. Qui la “penitenza” è veramente ciò che nel Nuovo Testamento è
indicato con il termine “metanoia”:
un cammino orientato a Dio, un cammino di libertà nell’attesa di Dio e della
sua salvezza in Cristo Gesù. Il salmo è uno splendido inno alla gioia del
perdono.
Preghiera:
O Padre, che con la
morte e risurrezione di Cristo hai operato la redenzione, ascolta la nostra
voce: ravviva in noi la speranza dopo le ricadute nel male, e ricolmaci della
tua misericordia, affinché possiamo raggiungere la salvezza e contemplare il
tuo volto.
Bibliografia: Spirito Rinaudo, I salmi preghiera di Cristo e della Chiesa,
Elle Di Ci, Torino-Leumann 1973; Vincenzo Scippa, Salmi, volume 1. Introduzione e commento, Messaggero, Padova 2002;
Ludwig Monti, I salmi: preghiera e vita,
Qiqajon, Comunità di Bose 2018; Temper
Longman III, I salmi. Introduzione e
commento, Edizioni GBU, Chieti 2018.