Lo scorso 12 marzo, la
Prima sezione della Segreteria di Stato di Papa Francesco ha pubblicato un
Documento che disciplina la celebrazione delle Sante Messe nella basilica di
San Pietro. Il Card. Raymond Leo Burke
sul suo sito internet ha rilasciato una Dichiarazione critica sia sulla forma
che sui contenuti del suddetto Documento:
Lasciando in disparte le
critiche sulla forma del Documento, intendo fare qui una breve riflessione sulle
critiche che la Dichiarazione fa ai contenuti del Documento. Possiamo
riassumerle dicendo che le sei osservazioni critiche si muovono nell’ambito del
“minimo necessario ad validitatem”.
La Dichiarazione nega
che la prassi finora in vigore abbia generato una mancanza di “di raccoglimento
e di decoro”, come sembrerebbe affermare il Documento. Ci si potrebbe domandare
però se è decoroso e dignitoso che più sacerdoti celebrino soli e simultaneamente
l’eucaristia in diversi altari del recinto basilicale. L’eucaristia non è un
atto di pietà del singolo sacerdote, ma celebrazione di Cristo e della Chiesa
che, per sua natura, è espressa in modo congruo quando la comunità cristiana è riunita
in assemblea. La Costituzione Sacrosanctum Concilium ci ricorda che “le azioni
liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa” (SC 26), e
più avanti si determina che “ogni volta che i riti comportano, secondo la
particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria caratterizzata
dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli, si inculchi che essa è
da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi
privata. Ciò vale soprattutto per la celebrazione della Messa” (SC 27).
La Dichiarazione
riafferma il diritto del sacerdote a celebrare in modo individuale (cf. CIC,
can. 902). Si dovrebbe però aggiungere, che questo diritto è moderato dall’Ordinamento
generale del Messale Romano: “La celebrazione senza ministro o almeno
qualche fedele non si faccia se non per un giusto e ragionevole motivo” (n. 254).
La preferenza di alcuni sacerdoti per la celebrazione abituale dell’eucaristia
senza il popolo può dimostrare uno scarso senso ecclesiale.
Il Documento vuole che
le Messe concelebrate siano animate liturgicamente con il servizio di lettori e
cantori. A questa affermazione la Dichiarazione risponde che “solo Cristo,
nella cui persona attua il sacerdote, anima la sacra liturgia”. E allora quale
valore ha quanto Sacrosanctum Concilium determina sulla partecipazione
attiva dei fedeli, che rispondono, cantano e intervengono con i gesti e
l’atteggiamento del corpo (cf. SC 30-31 e passim)? I riti e le preghiere non
sono una realtà esterna, ma sono la mediazione con cui si accede al mistero che
si celebra.
La Dichiarazione afferma
che nessun sacerdote ha bisogno di un permesso per celebrare la Messa secondo
la forma straordinaria del rito romano e lamenta che il Documento offra
soltanto quattro orari fissi al giorno per queste celebrazioni. Bisognerebbe ricordare
però che Summorum Pontificum, art. 5, § 1, prevede che il parroco deve
armonizzare tali celebrazioni con la cura pastorale ordinaria della parrocchia.
Ciò va applicato anche alla basilica di san Pietro.
Le critiche della Dichiarazione sono espressione di una mentalità tipicamente
clericale e, come dicevo all’inizio, si muovono nell’ambito ristretto del
minimo necessario. Celebrare
la liturgia secondo la sua pienezza chiede di abbandonare la logica del minimo
necessario. Non è sufficiente che il rito sia valido, piuttosto deve essere
espressivo di tutta la ricchezza di quello che viene celebrato.