Ml
1,14-2,2.8-10; Sal 130; 1Ts 2,7-9.13; Mt 23,1-12
La
dolcissima immagine di un Dio “materno” che regge le poche battute del salmo 130
hanno reso la preghiera in esso racchiusa un delle più care alla tradizione
cristiana. Ritroviamo in questo testo lo spirito dell’infanzia spirituale, che
sarà indicata da Cristo come la via maestra per giungere al regno di Dio (cf.
Mt 18,1-5). Soltanto un cuore umile e disponibile è in grado non solo di vivere
nella pace, ma anche di donarsi con generosità e coraggio per il bene degli
altri.
La
prima lettura riporta un richiamo accorato e minaccioso del profeta Malachia contro i sacerdoti del tempio di
Gerusalemme del suo tempo, i quali non sono zelanti dell’amore di Dio, non
osservano la sua legge ed agiscono con perfidia. La vita di quei sacerdoti
dell’Antico Testamento era in stridente contrasto con il loro compito, anzi lo
annullava del tutto. Il brano evangelico racconta che Gesù ha lo stesso atteggiamento
con gli scribi ed i farisei, che pur essendo maestri della legge in Israele non
sono coerenti tra quanto dicono e fanno. Impongono sugli altri pesanti fardelli
che essi non portano minimamente, amano essere ammirati dalla gente ed essere
chiamati maestro. E proprio Egli, Gesù l’unico nostro vero Maestro, si presenta
ai suoi discepoli come colui che ha dato esempio, diventando il loro servo. San
Paolo nella seconda lettura, da parte sua, dopo aver affermato di essere
disposto a dare la sua stessa vita per amore dei fratelli, ricorda che egli ha
lavorato notte e giorno per non essere di peso ad alcuno. In questo contesto di
dedizione e di sacrificio personale dell’apostolo, i tessalonicesi possono
veramente fare l’esperienza di una parola che non è più “parola d’uomini” ma
“parola di Dio”. San Paolo imita l’atteggiamento affettuoso di Dio, espresso
dal salmo responsoriale, nei riguardi della comunità, che ha generato alla
fede, e che considera quasi come creatura da lui partorita (cf. Gal 4,19).
Con
il battesimo tutti siamo diventati corpo sacerdotale di Cristo, tutti siamo
chiamati ad annunciare le meravigliose opere di Dio, e quindi le dure parole
della Bibbia che ascoltiamo oggi sono dirette a tutti indistintamente affinché
la vita di ciascuno non diventi una controtestimonianza ma sia coerente.
L’insidia dell’ipocrisia e del fariseismo minaccia continuamente ogni
esperienza religiosa, compresa l’esperienza cristiana. La logica della vita
cristiana richiede che non ci sia una frattura tra fede e vita, tra parola e
azione; l’autenticità cristiana passa attraverso il costante superamento di
questa dicotomia che tenta sempre di annidarsi nelle più diverse pieghe
dell’agire umano. Recuperare l’unità coerente e interiore della fede e del
comportamento è l’esigenza proclamata dal vangelo di questa domenica. Possiamo
quindi domandarci: siamo impegnati a testimoniare con sincerità l’autentico
messaggio di Cristo? La nostra
testimonianza di fede cristiana si riduce a vuote parole o è in coerenza con la
nostra vita?