Come ho messo in
luce nel mio post precedente (sul tema
delle “particole tonde”) dobbiamo riconoscere serenamente una certa
tensione tra “teoria della transustanziazione” e “nuova celebrazione del rito
eucaristico”. Da un certo punto di vista, quella teoria condiziona pesantemente
la pratica rituale. D’altra parte, a sua volta, è stato un certo tipo di prassi
ad aver preparato le condizioni per una teoria come quella della “conversione
della sostanza, che lascia immutati gli accidenti”. In altri termini, una
consistente parte della dottrina teologica dell’ultimo secolo si è resa conto
che la “teologia della transustanziazione”, pur salvaguardando con grande
precisione il “contenuto” della fede in un contesto polemico, non riesce a
salvaguardarne la “forma” e determina un progressivo divorzio tra forma e
contenuto, causando ricadute negative anche sul piano strettamente
contenutistico.
La
consacrazione senza contesto
Un esempio eloquente di
questo fenomeno può essere identificato nella difficoltà con cui, gradualmente,
tentiamo di recuperare la “unità della preghiera eucaristica”, uscendo da una
fruizione “altamente selettiva” di tale preghiera. In realtà, osservando prima
la pratica che la teoria, possiamo costatare che rimane un profondo “zoccolo
duro” di quella che è stata, per secoli, una “partecipazione attiva” del popolo
di Dio limitata alla “consacrazione”.
Mi spiego meglio. Per una
lunga stagione, che risale almeno al Medioevo, la pressoché totalità di coloro
che “partecipavano” alla Messa, era realmente presenti solo al momento della
consacrazione. Tutto ciò che precedeva e tutto ciò che seguiva, nel processo
rituale, era luogo di “devozioni parallele”. E la cosa era talmente evidente,
che sulla soglia di ingresso e di uscita da questo “intenso luogo di culto
comune” – ossia la consacrazione – un campanello era preposto a richiamare la
attenzione iniziale e finale. Il primo campanello richiamava l’attenzione della
assemblea verso l’atto comune, il secondo restituiva ognuno alle proprie
devozioni personali. Bisogna considerare con attenzione che questa
“pratica” – che oggi non è scomparsa, anche se ha trasformato il “suono del
campanello”, talora spostandolo anche in un momento diverso, ossia alla
elevazione – è più di un “modo di fare”: è un “modo di pensare”, che identifica
il punto esatto della “conversione della materia” e rischia di rendere tutto il
resto “superfluo”.
Transustanziazione
e carenza rituale
Alcune osservazioni sono
qui necessarie:
a) Questa pratica ha
trasformato il rito della eucaristia, identificandone il centro in un atto
interno alla preghiera eucaristica e perdendo gradualmente il contesto orante
che lo struttura;
b) La trasformazione del
rito eucaristico ha sostituito con la “formula sulla materia” – ossia le parole
della consacrazione su pane e vino – la sequenza “prex/ritus” che è costituita
da “anafora eucaristica/rito di comunione”. In tal modo alla centralità della
dinamica ampia tra preghiera/sacrificio/comunione si è sostituita la relazione
stretta tra parole di consacrazione e materia eucaristica;
c) Questa trasformazione è
risultata accentuata dalle polemiche sulla messa come “sacrificio/comunione”:
avendo nettamente separato la dimensione di sacrificio da quella di comunione –
in risposta alla netta separazione luterana della comunione dal sacrificio –
abbiamo creato le premesse teoriche per questo isolamento della “consacrazione”
non solo dalla “preghiera eucaristica”, ma anche dal “rito di comunione”
d) A tutto questo va
aggiunto anche l’isolamento della consacrazione dalla “prima parte della messa”
– dalla “parte didattica” come veniva chiamata – che solo recentemente abbiamo
riscoperto come “comunione nella Parola proclamata, ascoltata e pregata”.
Tutto questo sviluppo, che
risponde a molteplici ragioni e concause, ha trovato nel concetto di
“transustanziazione” una potente forma di mediazione. Isolando la logica della sostanza
dalla logica degli accidenti, ha potuto determinare – senza averne le
intenzioni – tutte le nostre forme di “indifferenza per la forma rituale”, che
hanno causato le derive formalistiche della nostra tradizione. Il richiamo che
J. Ratzinger ha indicato, nel 1980, verso la “scoperta della forma rituale”
come idea teologica fondamentale del Movimento Liturgico, chiarisce bene il
senso di questa nuova esigenza di comprensione teorica della tradizione, per la
quale i concetti classici non sono più sufficienti.
Le
ragioni del Novus Ordo Missae
Ora dobbiamo chiederci:
come possiamo restituire al rito eucaristico la sua ricchezza e la sua forza?
La strada battuta dal Concilio Vaticano II risulta ancora assai promettente.
Potremmo riassumerla in questi pochi punti qualificanti:
a) Ha indicato in 7 azioni
qualificanti il percorso di aggiornamento della tradizione (maggiore ricchezza
biblica, omelia, preghiera dei fedeli, uso delle lingue parlate, comunione
sotto le due specie, unità tra parola e sacramento e concelebrazione);
b) Ha recuperato come
criterio di fondo la “actuosa participatio”, che restituisce alla assemblea la
qualità di “soggetto/oggetto” della azione rituale;
c) Ha avviato il processo
di riforma dei riti, per riacquisire quelle sette ricchezze e per rendere
possibile questa rinnovata forma di partecipazione, da cui dipende l’intera
esperienza ecclesiale.
Ovviamente, se queste
ragioni di novità vengono negate o minimizzate, non si percepiscono affatto le
difficoltà cui conduce la “teoria della transustanziazione”: potremmo dire che
i fautori del Vetus Ordo spesso si sentono spinti a pretendere una immediata
identificazione tra presenza reale e transustanziazione. Viceversa la nuova
ricchezza rituale, introdotta dalla Riforma Liturgica, aiuta il grande corpo
della Chiesa a meglio esprimere ciò che essa pensa di sé, come disse Paolo VI
aprendo la II sessione del Concilio Vaticano II. A fare esperienza della
presenza del Signore in molti modi e in diversi linguaggi.
Partecipare
senza campanello
Da tutto questo possiamo
derivare una serie di conclusioni, per le quali occorre precisare anche
teoricamente il contenuto della presenza del Signore, che definiamo “corpo di
Cristo”.
a) Per questa esperienza
non occorre alcun campanello. Non ha senso né suonarlo all’inizio della
“consacrazione”, né spostarlo all’inizio della preghiera eucaristica: noi non
possiamo separare né il racconto istituzionale dalla anafora, né la anafora
dalla liturgia della parola, né la preghiera eucaristica dai riti di comunione.
Il rito ha già le sue soglie rituali, ma la partecipazione si estende
all’intero processo rituale, non si concentra solo in una sua porzione;
b) Il campanello è
l’indice di quello che giustamente Enrico Mazza ha definito “un rito nel rito”:
senza perdere le diverse articolazioni del processo rituale, dobbiamo
recuperare la percezione del “grande rito” costituito dalla sequenza
“anafora/comunione”, al cui interno facciamo memoria delle parole del Signore
sul pane e sul calice;
c) Il grande rito
costituito dalla sequenza “anafora/comunione” comprende e annuncia che “corpo
di Cristo” è la Chiesa per mediazione del corpo sacramentale; il piccolo rito
della consacrazione rischia di fermarsi alla realtà intermedia del corpo
sacramentale e di non far percepire la destinazione ecclesiale del rito
eucaristico;
d) In questo processo di
arricchimento della tradizione, la teoria teologica della “transustanziazione”
rischia di svolgere – contro le proprie intenzioni – una funzione di immunizzazione dalla forma:
se l’unica forma richiesta è quella delle “parole precise sul pane e sul vino”,
allora è evidente quanto grande sia il rischio di distorsione della tradizione
che, attraverso quella teoria, possiamo inavvertitamente generare.
Per concludere:
transustanziazione è un termine che storicamente ha avuto la funzione di
“salvaguardare un contenuto” in contesto polemico. Tale funzione deve oggi
essere coniugata con una istanza diversa, ossia quella di recuperare le “forme
più adeguate e più ricche” di quel contenuto. Per questo recupero la nozione di
transustanziazione appare non solo come una antica ricchezza, ma anche come una
nuova povertà.