Solo nell’ambito del tempo
festivo il tempo del lavoro e il tempo libero acquisiscono senso pieno e
profilo plausibile. Non appena si leva loro questa ulteriorità irriducibile
festiva, si assiste al sorgere di un uomo angelicato che si dispera, o di un
uomo impegnato che si abbrutisce. Il compito e la vacanza sono immediatamente
catturati e travolti dal loro eccesso disumanizzante: una vita senza riposo o
una vita senza lavoro non sono più vite umane. E infatti il disoccupato e il
sovraoccupato patiscono non solo nel fisico, ma anche nello spirito e nella
dignità.
Solo l’uomo che ha ancora una
sapienza festiva, che sa interrompere il lavoro o il far nulla per “celebrare”,
può avere la forza di non esagerare nella benedizione del riposo (che presto si
capovolge in maledizione) o nella maledizione del lavoro (che gradualmente si
trasforma in benedizione).
Così scopriamo che il tempo
libero è il tempo più astratto, il meno umano, perché suppone che sia l’uomo a dare
senso al proprio tempo: di fronte a questa ipotesi – apparentemente così facile
e allettante – l’uomo non può far altro che soccombere e disperare; il tempo
del lavoro è così un’ottima fuga, perché l’uomo trovi nella vita ordinaria
relazioni che gli impongano il loro ritmo, il loro tempo: ma anche da questa
ipotesi l’uomo si trova schiacciato, alienato, derubato a se stesso. Il tempo
della festa è, invece, il tempo più concreto, quello che può annunciare il
senso del tempo, rinunciando sia all’assoluta autonomia della “dimensione”
divertita della vacanza sia all’assoluta eteronomia del “compito” lavorativo
come anticipazione del giudizio finale.
Fonte: Andrea Grillo, Tempo graziato. La liturgia come festa,
Messaggero, Padova 2018, pp. 94-95.
Solo nell’ambito del tempo
festivo il tempo del lavoro e il tempo libero acquisiscono senso pieno e
profilo plausibile. Non appena si leva loro questa ulteriorità irriducibile
festiva, si assiste al sorgere di un uomo angelicato che si dispera, o di un
uomo impegnato che si abbrutisce. Il compito e la vacanza sono immediatamente
catturati e travolti dal loro eccesso disumanizzante: una vita senza riposo o
una vita senza lavoro non sono più vite umane. E infatti il disoccupato e il
sovraoccupato patiscono non solo nel fisico, ma anche nello spirito e nella
dignità.
Solo l’uomo che ha ancora una
sapienza festiva, che sa interrompere il lavoro o il far nulla per “celebrare”,
può avere la forza di non esagerare nella benedizione del riposo (che presto si
capovolge in maledizione) o nella maledizione del lavoro (che gradualmente si
trasforma in benedizione).
Così scopriamo che il tempo
libero è il tempo più astratto, il meno umano, perché suppone che sia l’uomo a dare
senso al proprio tempo: di fronte a questa ipotesi – apparentemente così facile
e allettante – l’uomo non può far altro che soccombere e disperare; il tempo
del lavoro è così un’ottima fuga, perché l’uomo trovi nella vita ordinaria
relazioni che gli impongano il loro ritmo, il loro tempo: ma anche da questa
ipotesi l’uomo si trova schiacciato, alienato, derubato a se stesso. Il tempo
della festa è, invece, il tempo più concreto, quello che può annunciare il
senso del tempo, rinunciando sia all’assoluta autonomia della “dimensione”
divertita della vacanza sia all’assoluta eteronomia del “compito” lavorativo
come anticipazione del giudizio finale.
Fonte: Andrea Grillo, Tempo graziato. La liturgia come festa,
Messaggero, Padova 2018, pp. 94-95.