Ez
2,2-5; Sal 122 (123); 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
La prima lettura ci parla di
Ezechiele; essendo membro di una famiglia influente, fu deportato assieme ad
altri numerosi compagni di sventura a Babilonia. Qui, nella solitudine
dell’esilio sulle rive del fiume Chebàr, Dio gli si manifesta e lo manda a
parlare al suo popolo che, nonostante l’elezione divina, è “una razza di
ribelli”. Ezechiele è chiamato a denunciare il peccato di Israele come
violazione dell’alleanza con Dio, che si radica nel “cuore indurito”. Da qui
derivano la resistenza e il rifiuto da parte dei destinatari della sua
missione. La difficile missione del profeta Ezechiele tra i suoi connazionali
viene proposta come lo sfondo adatto per capire la disastrosa esperienza di
Gesù nel proprio paese, di cui ci parla il brano evangelico. A Nazaret, dove ha
passato gran parte della sua vita, Gesù al sabato predica nella sinagoga
suscitando un certo stupore e incontrando allo stesso tempo un ostile rifiuto.
Di fronte a questa reazione, Gesù non trova altra spiegazione se non quella che
la sapienza popolare ha condensato nel proverbio: “Un profeta non è disprezzato
che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Gesù si predispone a
percorrere la sorte dei profeti, che nella tradizione biblica sono contestati e
rifiutati da coloro ai quali sono inviati. L’esperienza di san Paolo non è
stata molto diversa. Ce ne parla egli stesso nel brano della seconda lettura,
in cui ci ricorda le difficoltà di ogni genere incontrate nella sua attività di
evangelizzatore: oltraggi, persecuzioni, angosce sofferte per Cristo.
Volendo trarre da questi
passaggi un insegnamento valido per tutti noi, possiamo rivolgere la nostra
attenzione in modo particolare al racconto evangelico. Uno dei motivi della
freddezza dei nazaretani nei confronti di Gesù è il fatto che egli non era stato
e non sembrava essere che uno di loro. I concittadini di Gesù si erano
costruita un’idea del Messia che non combaciava con quella offerta dal
“falegname, il figlio di Maria”. Essi non volevano mettere in discussione i
loro schemi mentali. Ecco perché passano rapidamente dallo stupore, allo
scandalo e poi alla incredulità. Uno dei motivi per cui la parola di Dio può
essere inefficace in noi è la durezza del nostro cuore, l’attaccamento
incondizionato ai propri schemi di pensiero, alla propria visione delle cose,
al proprio modo di affrontare la vita. Il nostro orgoglio ci impedisce talvolta
di metterci in discussione e quindi di accogliere il messaggio salvifico che ci
invita a cambiare di condotta. L’antifona al Magnificat dei Secondi Vespri di
questa domenica riprende un versetto del vangelo di san Giovanni (1,11) che
parla del prezioso dono che viene offerto a coloro che accolgono il Signore:
“Gesù venne tra la sua gente, e i suoi non l’accolsero. A chi l’accoglie, dà il
potere di diventare figli di Dio”.
Dio vuole che la verità si
imponga per sé stessa, non per i condizionamenti esterni. Egli inoltre si
propone come un Dio imprevedibile, che si rivela mediante strumenti e nei
momenti più impensati. La sua offerta di salvezza non è legata a formule fisse,
e se schemi preferiti ci sono, sono quelli umanamente più fragili, perché si
manifesti pienamente la sua potenza (cf. seconda lettura).