Pubblicato il 3
luglio 2018 nel blog: Come
se non
Con una intervista rilasciata al Tagespost il
28 giugno scorso, Bernard Fellay risponde a domande ben formulate intorno ai 30
anni di esperienza dello scisma lefebvriano . Molto opportunamente il testo è
stata tradotto e proposto da SettimanaNews (qui).
Molte risposte fotografano con molta precisione il livello di lontananza e di
ostilità dei lefebvriani verso il cattolicesimo romano, così come si è
sviluppato dal Concilio Vaticano II in poi. Vorrei soffermarmi soltanto su
alcune di queste risposte, che risultano singolarmente utile per parlare non
tanto dei lefebvriani, quanto dei loro interlocutori nella curia romana e del
loro gioco pericoloso e doppio. Riporto una serie di risposte di Fellay, alle quali
faccio seguire miei brevi commenti.
1. La messa riformata
Fellay esprima giudizi sulla messa scaturita dalla Riforma
liturgica così carichi di pregiudizi e così ingiusti da gridare vendetta al
cielo. Ecco un primo brano in cui si esprime sul Concilio Vaticano II e sulla
riforma della messa:
“Le riforme che ne sono seguite lo hanno dimostrato più
chiaramente del Concilio stesso. Il problema si è fossilizzato sulla nuova
messa. A Roma è stato detto all’arcivescovo Lefebvre aut aut: «Lei celebri la
nuova messa e tutto è a posto». I nostri argomenti contro la nuova messa non
contavano niente. Nel frattempo, il messale di Paolo VI fu composto con la
collaborazione di teologi protestanti. Se si viene costretti a celebrare questa
messa, allora sorge realmente un problema. E noi siamo stati spinti a farlo.”
E’ evidente che la incomprensione della messa scaturita dalla
riforma liturgica porta ad una radicale incomprensione del Concilio e del
cammino di ricomprensione del mondo moderno operato dal Concilio stesso. Fellay
getta discredito sul Concilio e sulla Riforma Liturgica. Con chi esprime questi
giudizi non si comincia neppure a discutere. Si scomunica da sé, per gli
argomenti che utilizza.
2. Summorum Pontificum
A proposito della rottura e del ruolo che il card. Ratzinger
ebbe nella vicenda, nel 1988 Fellay dice:
“(Ratzinger) Non ha capito quanto profonde erano le ragioni
dell’arcivescovo e il disorientamento dei fedeli e dei preti. Molti non ne
potevano più degli scandali e dei disagi postconciliari e anche del modo in cui
era celebrata la nuova messa. Se il card. Ratzinger ci avesse compreso, non
avrebbe agito così. E penso che gli sia dispiaciuto. Perciò da papa ha cercato
di riparare ai danni con il motu proprio e
di togliere la scomunica. Gli siamo realmente riconoscenti per i suoi tentativi
di riconciliazione.”
Anche queste parole, che Fellay carica ovviamente di un tono del
tutto particolare, rivelano uno degli equivoci più insidiosi che stanno sotto
tutta queste vicenda. Anche solo la possibilità che il testo di Summorum
Pontificum sia stato inteso come una sorta di “risarcimento del danno” e di
“condizione” per l’accordo appare davvero come una gravissima responsabilità.
Da parte dei lefebvriani, per la incomprensione della riforma, e da parte di
Benedetto XVI, per la relativizzazione e la banalizzazione della riforma
stessa. Dopo 30 anni da quello scisma non ci sono ragioni per mantenere ancora
un parallelismo tra forme diverse e contraddittorie dello stesso rito, che non
sono fondate né teologicamente, né giuridicamente, né liturgicamente.
3. Le condizioni chieste da Roma per l’accordo
Ma forse il testo più sorprendente e preoccupante è quello che
Fellay dedica alle richieste romane per arrivare a un accordo. Ecco le sue
parole:
“Noi dobbiamo mettere in questione certi punti del Concilio. I
nostri interlocutori a Roma ci hanno detto: i punti principali – libertà di
coscienza, ecumenismo, nuova messa – sono problemi aperti. Si tratta di un
progresso incredibile. Finora si diceva: dovete obbedire. Ora i collaboratori
della Curia dicono: dovreste aprire un seminario a Roma, una università per la
difesa della tradizione. Non è più tutto bianco e nero.”
E’ inevitabile che Fellay dimostri un certo entusiasmo: se Roma,
senza alcuna responsabilità, facesse anche solo lontanamente pensare che
libertà di coscienza, ecumenismo e nuova messa possano essere “variabili non
necessarie” della identità cattolica, è chiaro che per i lefebvriani sarebbe un
vero trionfo. Non farebbero alcuna fatica a riconciliarsi con una Roma divenuta,
improvvisamente e improvvidamente, lefebvriana. Ma chi può avere detto a Fellay
quelle parole irresponsabili, se non qualche membro della Commissione Ecclesia
Dei? E non sarà il caso si sottoporre questi ufficiali ad una verifica, almeno
rispetto alla tradizione cattolica così come il Concilio Vaticano II l’ha
disegnata? Non sarà forse che i membri di quella commissione, a furia di
celebrare con il rito antico, si siano scoperti più innamorati del Concilio di
Trento che del Concilio Vaticano II? Chi attribuisce al successore di Lefebvre
il ruolo di “difensore della tradizione” manifesta di essere del tutto
disorientato sulla storia degli ultimi 5o anni e di non avere il minimo
senso della tradizione che cammina e che si risana.
Non lasceremo a monsignorini romani senza vera cultura
ecclesiale e analfabeti di liturgia e di teologia conciliare la facoltà di
svendere la riforma liturgica, l’ecumenismo e la libertà di coscienza per un
piatto di lenticchie. Su questo punto Roma non può che essere rigorosamente
intransigente. Per restare aperta allo Spirito Santo. E isolare definitivamente
tutti coloro che vogliono ridurre la Chiesa ad un museo. E tuttavia, se dovessi
considerare attentamente il tavolo delle trattative con Fellay, non saprei
francamente da quale parte del tavolo dovrei guardare con maggiore
preoccupazione.