È mezzogiorno. Un uomo e una
donna, che si può immaginare emarginata fra i suoi a ragione di una travagliata
storia personale alle spalle. Due interpreti di altrettante visioni della Torà, divaricanti ma a loro modo fedeli
alla rispettiva tradizione, che dovrebbero inevitabilmente scontrarsi: ad
esempio, a proposito del luogo santo più efficace presso cui adorare Dio,
rispettivamente il Tempio di Gerusalemme e il monte Sinai, da una parte, e il
Garizim, altura sacra ai samaritani, dall’altra. Tuttavia Gesù, davanti alla
domanda di lei – colpita dalle doti profetiche del suo interlocutore – su dove
sia più opportuno pregare, rispetta l’interlocutrice nella sua umanità, accetta
le differenze e mantiene l’identità in campo, rifiutando un dilemma che
percepisce come troppo angusto e radicalizzando la questione. Così, egli
proietta piuttosto il quadro su un futuro escatologico, peraltro già avviato:
“Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in
Gerusalemme adorerete il Padre…” (Gv 4,21). E sarà adorato “in spirito e
verità”. Con lui, viene l’ora in cui il culto non dipende più da un luogo
determinato, fosse pure il più venerabile. Gesù, in tal modo, si pone in linea
diretta con la tradizione profetica, che annunciava come all’avvento del Messia
“la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare”
(Is 11,9). Si ricordi, a mo’ di suggestione, la considerazione del sociologo
francese Marcel Gauchet secondo cui il cristianesimo sarebbe “la religione
dell’uscita dalla religione”.
Fonte: Brunetto Salvarani, Teologia per i tempi incerti, Editori
Laterza, Roma 2018, p. 143.