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domenica 1 luglio 2018

LA BENEDIZIONE DELLE COPPIE DI FATTO È DAVVERO PROIBITA?



Ci chiediamo: si possono benedire le cosiddette “coppie di fatto”? La risposta secca, se la domanda fosse formulata all’interno di un quiz televisivo, sarebbe certamente: no. Com’è noto, in documenti recenti – compreso il testo dell’Esortazione apostolica Sacramentum caritatis (22.02.2007), n. 29 – si afferma esplicitamente il divieto di “benedizione delle coppie di fatto”. Qui la norma pastorale appare giustificata da un comprensibile effetto di “confusione” e di “sovrapposizione” tra sacramento del matrimonio e altre condizioni di vita familiare non riconducibili immediatamente alla logica sacramentale. Fin qui non pare esservi problema. Ma se guardiamo alla “benedizione” nella sua verità di atto non sacramentale ma liturgico, come riconoscimento ecclesiale della presenza del bene, ecco che non possiamo non notare una pericolosa confusione in cui rischiamo di cadere. Se inavvertitamente noi appiattissimo tutta l’attività ecclesiale sulla sua più alta ufficialità, finiremo per perdere ogni possibilità di annunciare il Vangelo non solo al centro, ma anche al margine e alla periferia dell’ecclesia. La benedizione, di per sé, ha proprio la funzione di “parlare anche alle periferie”, non pretende nulla da colui che la richiede e tutto riconosce come scintilla del bene. Riconosce il bene dei cieli per la pioggia, delle stalle per il latte, dei campi per le messi. Poter “benedire i conviventi” non è solo un errore rispetto alle nozze, ma è anche una risorsa per parlare anche a chi non si sposa ecclesialmente. Per poter riconoscere questa possibilità bisogna, tuttavia, uscire da mentalità massimaliste, per le quali vale solo il bene massimo e pieno, mentre porzioni di bene, anche minime, vengono trascurate. Ciò deriva dalla riduzione della Chiesa ad agenzia etica e dalla lenta trasformazione del prete in pubblico ufficiale. È il “bene possibile” di cui parla, finalmente di nuovo, Amoris laetitia (09.03.2016), n.308: la Chiesa è anche sempre “comunità di sequela accogliente” e il prete non è solo re, ma anche sacerdote e profeta. Le coppie di fatto non possono essere benedette con la benedizione degli sposi, certo: questo resta vero e inaggirabile; ma una benedizione può riconoscere quel poco o quel tanto di bene che – come coppie – esse realizzano nella loro vita, in quella dei loro figli, dei loro vicini, dei loro parenti. Se non sarà il parroco o il vescovo a benedire “anche” i conviventi – ossia a riconoscere quel tanto o poco di bene che essi comunque realizzano, sia pure parzialmente, lavorando uno per l’altro, amandosi teneramente, educando i figli nella verità, ospitando il povero o consolando l’afflitto – da chi altro potremo no dico pretenderlo, ma almeno sperarlo?



Fonte: Andrea Grillo, Tempo graziato. La liturgia come festa, Messaggero, Padova 2018, pp. 104-106