Ci chiediamo: si possono benedire le cosiddette “coppie di
fatto”? La risposta secca, se la domanda fosse formulata all’interno di un quiz
televisivo, sarebbe certamente: no. Com’è noto, in documenti recenti – compreso
il testo dell’Esortazione apostolica Sacramentum
caritatis (22.02.2007), n. 29 – si afferma esplicitamente il divieto di
“benedizione delle coppie di fatto”. Qui la norma pastorale appare giustificata
da un comprensibile effetto di “confusione” e di “sovrapposizione” tra
sacramento del matrimonio e altre condizioni di vita familiare non
riconducibili immediatamente alla logica sacramentale. Fin qui non pare esservi
problema. Ma se guardiamo alla “benedizione” nella sua verità di atto non
sacramentale ma liturgico, come riconoscimento ecclesiale della presenza del
bene, ecco che non possiamo non notare una pericolosa confusione in cui
rischiamo di cadere. Se inavvertitamente noi appiattissimo tutta l’attività
ecclesiale sulla sua più alta ufficialità, finiremo per perdere ogni
possibilità di annunciare il Vangelo non solo al centro, ma anche al margine e
alla periferia dell’ecclesia. La
benedizione, di per sé, ha proprio la funzione di “parlare anche alle
periferie”, non pretende nulla da colui che la richiede e tutto riconosce come
scintilla del bene. Riconosce il bene dei cieli per la pioggia, delle stalle
per il latte, dei campi per le messi. Poter “benedire i conviventi” non è solo
un errore rispetto alle nozze, ma è anche una risorsa per parlare anche a chi
non si sposa ecclesialmente. Per poter riconoscere questa possibilità bisogna,
tuttavia, uscire da mentalità massimaliste, per le quali vale solo il bene
massimo e pieno, mentre porzioni di bene, anche minime, vengono trascurate. Ciò
deriva dalla riduzione della Chiesa ad agenzia etica e dalla lenta
trasformazione del prete in pubblico ufficiale. È il “bene possibile” di cui parla,
finalmente di nuovo, Amoris laetitia
(09.03.2016), n.308: la Chiesa è anche sempre “comunità di sequela accogliente”
e il prete non è solo re, ma anche sacerdote e profeta. Le coppie di fatto non
possono essere benedette con la benedizione degli sposi, certo: questo resta
vero e inaggirabile; ma una benedizione può riconoscere quel poco o quel tanto
di bene che – come coppie – esse realizzano nella loro vita, in quella dei loro
figli, dei loro vicini, dei loro parenti. Se non sarà il parroco o il vescovo a
benedire “anche” i conviventi – ossia a riconoscere quel tanto o poco di bene
che essi comunque realizzano, sia pure parzialmente, lavorando uno per l’altro,
amandosi teneramente, educando i figli nella verità, ospitando il povero o
consolando l’afflitto – da chi altro potremo no dico pretenderlo, ma almeno
sperarlo?
Fonte: Andrea Grillo, Tempo
graziato. La liturgia come festa, Messaggero, Padova 2018, pp. 104-106