Avere
un tempo e, più ancora, essere
nel tempo è la caratteristica che distingue l’uomo dall’animale. Anticipare
il futuro e ricordare il passato permette all’uomo di essere una specie animale
del tutto eccezionale, perché capace di
uscire dal suo presente. O, meglio, di entrare nel presente, di stare nel
presente in un modo riflesso, profondo, cosciente. A differenza dell’animale,
l’uomo, continuamente facendo del presente la miscela di memoria del passato e
di apertura al futuro, può essere se stesso. Può affermare se stesso nel
ringraziamento della relazione che lo fonda o può negare se stesso,
affermandosi indipendentemente dalla relazione fondante, scadendo a ciò che
teologicamente prende nome di peccato.
Il tempo è allora il poter essere della libertà, è il luogo
eminente della salvezza e della perdizione, del “grazie” alla grazia o del
“diritto” al peccato. L’animale, poiché è senza tempo, è anche esterno o
estraneo al peccato. Non può peccare perché è fuori dal regime della
possibilità. Non ha alternativa ad essere se stesso, e per questo non ha un io.
L’uomo, che può dire io, può tradire quel se stesso che ha miracolosamente di
fronte a sé. Proprio perché ha un poter
essere futuro, l’uomo nel presente può smentire il suo passato, la sua
origine.
Ma come accede l’uomo al
tempo? Domanda strana, questa. Sembra quasi che l’uomo possa essere nel tempo
solo a un certo punto e che non si ritrovi “naturalmente” nel tempo. Eppure,
c’è un modo peculiare dell’uomo per accedere al tempo. Il passato e il futuro
non sono come il presente immediato. Solo il presente “è” in senso stretto. Il
passato e il futuro possono “essere” solo mediante
condizioni complesse, ossia attraverso il
pensiero, il linguaggio e la relazione ad altri. Pensiamo a ieri, pensiamo a domani, ma siamo nel presente. Ci pare che il tempo derivi quasi
magicamente dal nostro rielaborare concettuale nella memoria e
nell’anticipazione. In realtà, già Aristotele sapeva bene che il tempo, come elemento distintivo
dell’uomo, deriva all’uomo non semplicemente da una caratteristica naturale del soggetto (o peggio dell’individuo), ma
da una relazione sociale mediata dal
linguaggio.
A partire da qui possiamo dire
che non è una semplice ontologia, non
è una struttura bio-fisio-psico-logica a dare il tempo all’uomo, ma una relazione con l’altro mediata corporalmente,
linguisticamente e concettualmente. Tale passaggio tra la relazione sociale
e il tempo vissuto è assicurato da un linguaggio
determinato, dalla parola. Un’ontologia relazionale scopre così che tra
pensiero ed essere non può esservi alternativa né identità, ma mediazione
linguistica. Il tempo rientra – quasi come esempio principe – in questa regola,
e questo vale anche per la festa,
capace di mediare tra tempo del lavoro e tempo del riposo. Come il linguaggio media tra essere e pensiero, così
l’azione rituale festiva media tra tempo presente e senso del tempo.
Fonte: Andrea Grillo, Tempo graziato. La liturgia come festa,
Messaggero, Padova 2018, pp. 60-62.