Pubblicato il 18 febbraio
2019 nel blog: Come se non
In
un testo di quasi 40 anni fa, H. U. Von Balthasar esaminava, con grande
lucidità, i destini del Vetus Ordo. Era chiaro, per lui, già 40 anni fa, che
quella “forma” del rito romano fosse stata superata dalla riforma liturgica, in
modo definitivo. Vorrei qui riportare le pagine fondamentali di quel testo,
alle quali intendo aggiungere solo alcune considerazioni rivolte alla attualità
ecclesiale. Riporto dunque anzitutto il testo, tratto da H.-U. Von
Balthasar, Piccola guida per i cristiani, Milano, Jaca Book, 1986
(ed. orig. 1980), 111-114, di cui sottolineo in neretto le parti
più significative:
«Da
non molto… la protesta si leva da quei gruppi che si sono appartati a destra, e
si leva parte in
franca opposizione all’ultimo concilio in nome della tradizione antecedente,
parte restando ai margini della Chiesa e appoggiandosi dove può: sugli evidenti
errori dei progressisti, sul mantenimento delle vecchie forme di liturgia e di
pietà, e, non da ultimo, su numerose rivelazioni private, siano
esse riconosciute dalla Chiesa ufficiale o non lo siano (come il più delle
volte). [...]
L’altalenare
fra questi due estremi – attaccamento ostinato a vecchie forme e umile implorazione
al volere del cielo – rivela una mancanza di centralità e di equilibrio. Si
sottolinea l’ecclesia apostolica e sancta, ma il gruppuscolo protestatario vuol
essere al tempo stesso l’una, ed è impossibile, e la catholica, che per
natura sua non può consistere in un’opposizione. Ciò che più inquieta, nella
situazione della Chiesa odierna, è questo: all’ala sinistra, alquanto caotica
ma forte in fatto di media, si contrappone a destra una quantità di formazioni certo zelanti ma più o
meno introverse, quasi settarie, che naturalmente avanzano tutte la pretesa di
essere loro il centro, mentre di fatto impediscono che ne prenda corpo uno che
stia al di sopra di esse e rappresenti vivamente la viva tradizione.
Prende
o dà scandalo, come ebbe a sentenziare Guardini, chi pretende di aver ragione adducendo argomenti
«penultimi», cioè non perentori. Simili ragioni penultime sono in questo caso il clamoroso abuso del
nuovo Ordo liturgico da parte di un gran numero di ecclesiastici,
mentre la ragione ultima parla, nonostante tutto, per la Chiesa del Concilio e
contro i tradizionalisti. La
S. Messa aveva urgente bisogno del rinnovamento, soprattutto di quell’attuosa
partecipazione di tutti i fedeli all’azione sacra che nei primi secoli era
qualcosa di assolutamente pacifico. Tutt’al più- come hanno
ribadito P. Louis Bouyer e anche il cardinale Ratrzinger — si sarebbe potuto
tollerare ancora per un determinato tempo la vecchia messa preconciliare (nella
quale, dai tempi di Pio V, sono state apportate a più riprese numerose e
sostanziali modificazioni); a
poco a poco questa messa avrebbe finito per estinguersi organicamente.
Quel che, inoltre, i tradizionalisti non considerano, è che quasi tutto il
«nuovo» inserito nel messale di Paolo VI deriva dalle più antiche tradizioni
liturgiche, che il suo pezzo forte, il Canone Romano, è rimasto immutato, che
il ricevere l’ostia nelle mani e in piedi è stato abituale fino al IX secolo e
dei padri della Chiesa ci testimoniano che i fedeli si toccavano devotamente
occhi e orecchie coll’ostia prima di consumarla. Non dovremmo dimenticare, dice
Ratzinger, , «che impure sono non le sole nostre mani, ma anche le nostre
lingue» — Giacomo dice che la lingua è il nostro membro più peccaminoso (Gc 3,
2-12) — «e anche il nostro cuore… Il massimo rischio e nel contempo la massima
espressione della misericorde bontà di Dio è che sia lecito toccare Dio non
solo con le mani e la lingua, ma anche con il cuore» (J.
Ratzinger, Eucharistie — Mitte del Kirche. Vier Predigten, Muenchen, Erich
Wewel, 1978, 45) .
Il
tradizionalismo si appoggia a forme non basate su di una teologia e una
filosofia vive e che già per questo non possono rivendicare una validità oggi
persuasiva. Ovviamente la situazione varia a seconda delle
regioni; altro è che in un certo paese interi ambienti si appartino
rabbiosamente e pubblichino i loro fogli, altro è che in un cert’altro manipoli
di laici generosi ingaggino una battaglia col clero progressista, costituendo
gruppi di preghiera intensiva, sostenendo case di esercizi spirituali con un
ampio raggio di influenza, pubblicando volantini realmente edificanti. Qui lo
spirito genuino ha una chance di vincere il Golia di una lettera possentemente
organizzata in entità burocratica. Qui la cosiddetta «destra» si avvicina a
quel centro che è l’unico da cui possa promanare l’auspicato rinnovamento
conciliare e sul quale possa edificarsi una teologia aperta sia a una
rivelazione non sminuita sia alle necessità dell’ora: il centro che solo — al
di sopra di destre e sinistre, divenute incapaci di dialogo — è in grado di
conferire nuova forza anche fra gli uomini alla Parola di Dio»
La
singolarità dell’approccio di von Balthasar, che pure, come è del tutto
evidente, non può essere considerato «ideologico» e in nessun modo
“progressista”, non esita a formulare con grande chiarezza la necessità
dell’atto riformatore, anzitutto per la S. Messa. Ora è chiaro che, nel momento
in cui si ammette a chiare lettere la necessità della Riforma, il rito
precedente, quando anche continui a sussistere, può esserlo solo per carità,
per prudenza pastorale, per contingente opportunità, ma in vista della sua
«sparizione» e per nulla secondo un parallelismo strutturale, che in tal caso
si opporrebbe non solo alla tradizione, ma anzitutto al più elementare buon
senso. Questo a me sembra il punto su cui von Balthasar enuncia una verità
antica e che oggi esige una rapida acquisizione non soltanto da parte della
ufficialità ecclesiale, ma direi soprattutto in quella fascia di teologi e
pastori che mostrano di essere diventati stranamente indulgenti con questa idea
che accanto al rito riformato possa “strutturalmente convivere” il rito
precedente.
Se la
autobografia ratzingeriana ci lascia pensare che la Riforma dovesse assumere
carattere accessorio, considerando «intoccabile» il rito tridentino nella
versione del 1962 – e possiamo constatare quanto di autobiografico abbia in sé
anche “Summorum Pontificum” – viceversa la lettura balthasariana sente il
bisogno di sottolineare con chiarezza la necessità insuperabile della Riforma,
anche se può ammettere un regime limitato e provvisorio di tutela della forma
precedente del rito romano, che però riconosce “destinata ad estinguersi”. Se
riascoltate attentamente a distanza di quasi 40 anni, le parole di von
Balthasar indicano l’unica via possibile, per uscire da un imbarazzo sempre più
paralizzante:
- la ripresa
della Riforma Liturgica non può procedere se non si lavora tutti su un unico
rito;
- l’accesso
al rito precedente, destinato ad estinguersi, può avvenire solo per condizioni
eccezionali, sotto la vigilanza della autorità territoriale competente;
- la
“elaborazione” del nuovo rito, con tutte le correzioni e le promozioni
necessarie, può accadere su un “unico tavolo”: non esiste alcuna possibilità
che due forme rituali, di cui una è nata per emendare e sostituire l’altra,
possano produrre altro che divisione, lacerazione e discordia.
Proprio il
profilo “conservatore” e, diremmo, orientato “a destra” di von Balthasar
risulta al di sopra di ogni sospetto. Egli sapeva, già 40 anni fa, che il
disegno di “parallelismi rituali strutturali” non era la rivincita ecclesiale
del passato contro il futuro, ma il delirio settario su un passato ormai senza
futuro.