At 13,14.43-52; Sal 99 (100); Ap
7,9.14b-17; Gv 10,27-30
La bontà e la fedeltà di Dio
si sono manifestate pienamente in Cristo, ed egli, nostro pastore, con la morte
e risurrezione, ci ha fatto “suo popolo e gregge del suo pascolo”. Cristo è il
pastore che porta ai pascoli della vita. E’ su questa immagine che insiste
particolarmente la liturgia odierna.
Nel brano evangelico, Gesù si
presenta come il vero pastore dell’umanità, che stabilisce uno stretto rapporto
di conoscenza o esperienza, di unione e
intimità con l’uomo, lo guida e lo conduce alla vita eterna. La seconda lettura
ci riporta alla fase finale del regno, a quella celeste, quando il gregge di
Cristo avrà già raggiunto i pascoli eterni e sarà una moltitudine immensa, che
nessuno può contare; l’Agnello immolato e vittorioso sarà il loro pastore e
tergerà ogni lacrima dai loro occhi. Nel frattempo la Chiesa, seguendo l’esempio
degli apostoli (cf. prima lettura), continua ad annunciare a tutte le genti
“sino all’estremità della terra” la salvezza in Cristo.
Per meglio capire le parole di Gesù che si presenta come
buon pastore, bisogna tener conto del contesto più generale in cui egli ha
fatto questa affermazione. Con l’immagine del buon pastore, Gesù intende
rispondere in qualche modo a coloro che gli chiedono insistentemente se sia lui
il Messia. Per i suoi interlocutori il Messia era considerato perlopiù una
sorta di figura politica, un personaggio di potere. Il Signore invece
scegliendo l’immagine del buon pastore rivela in quale altro modo inatteso egli
sia il Messia. Egli non avanza pretesa alcuna di dominio sull’uomo, ma solo una
proposta di amore e di servizio che arriva fino al dono della vita.
Il Figlio di Dio, facendosi uomo, si è avvicinato ad ogni
uomo, lo ha chiamato per nome, lo ha amato con cuore di uomo fino a dare la
propria vita per quest’uomo. Quando Gesù dice: “Io dò loro la vita eterna” non
parla di qualcosa di esterno. La “vita eterna” nel vocabolario di Giovanni è
semplicemente un sinonimo di “vita divina”, quindi di partecipazione alla
stessa esistenza del Pastore. Possiamo ricordare al riguardo una ardita
affermazione di sant’Agostino: quando egli intende esprimere il mistero di comunione
che si stabilisce tra Dio e l’uomo redento, afferma con una bellissima
espressione che Dio è “più intimo a me di me stesso”. Scoprendoci nel cuore di
Dio, smetteremo di restare ripiegati sulle nostre piccole paure.
Gesù afferma che egli “conosce” le sue pecorelle, cioè
Gesù entra nella profondità personale della creatura amata che gli risponde con
l’ascolto e l’adesione della fede. Infatti “ascoltare” è per l’uomo apertura
esistenziale all’altro, è attenzione alla sua persona prima ancora che alle sue
parole. Un uomo che non ascolta, che non è disposto ad aprirsi e a ricevere
nulla dall’altro, non sarà in grado poi di comunicare, di dare qualcosa
all’altro, agli altri. La domenica del buon pastore ci riporta ai pastori della
Chiesa. Il Signore chiama, ha bisogno di uomini e donne che si dedichino in
modo particolare all’annuncio del vangelo radunando la comunità attorno alla
mensa della Parola e dell’Eucaristia e donando a piene mani il perdono e la
tenerezza di Dio.