Am 6,1a.4-7; Sal 145 (146); 1Tm
6,11-16; Lc 16,19-31
La
parola di Dio ripropone il tema della domenica scorsa sull’uso dei beni
terreni. Gesù ci invitava a dare ad essi un valore relativo guardando ai beni
definitivi e ci premuniva sull’abbaglio di cui possiamo essere vittime in
questa materia quando ci ricordava che non è possibile “servire a Dio e alla
ricchezza”. In questa domenica c’è un elemento in più, l’invito a condividere i
nostri beni con gli altri. Il profeta Amos (prima lettura) pronuncia parole
dure contro i grassi borghesi di Samaria che si godono la vita incuranti della
povertà e miseria degli altri. Contro questi gaudenti il profeta prende una
chiara posizione di condanna, annunciando la fine delle feste spensierate
nonché il sopraggiungere della deportazione e dell’esilio. Non si tratta di una
condanna della ricchezza in se stessa, ma di un severo giudizio di coloro che
si servono di essa per farne strumento di corruzione e di oppressione. In
questo caso, la ricchezza diventa sorgente del potere che sfrutta e opprime.
Sullo
sfondo della dura denuncia del profeta Amos si colloca la nota parabola del
ricco epulone e del povero Lazzaro, narrata dal vangelo d’oggi. Vi troviamo
descritte due figure contrapposte. L’uomo ricco sdraiato sui divani che
banchetta lautamente. Il povero che
giace alla sua porta, bramoso di sfamarsi di quello che cade dalla mensa del
ricco. I cani si sono accorti della presenza del povero e vanno a leccargli le
piaghe. L’epulone, invece, fa come se non esistesse. Il ricco non ha nome.
Nella cultura ebraica, il nome esprime la realtà profonda delle persone,
riassume la loro storia; egli non ha nome perché non ha storia. Il povero ha un
nome quanto mai significativo: “Dio aiuta”. I due personaggi del racconto
muoiono, e la loro sorte si capovolge: l’epulone si trova nell’inferno tra i
tormenti, e Lazzaro invece viene trasferito nel banchetto celeste presieduto da
Abramo. La morte non fa altro che sancire in modo definitivo e irreversibile il
destino finale degli esseri umani, quel destino che ognuno di noi costruisce
nella sua vita terrena. La logica di Dio non è quella del potere e del
successo, ma quella della misericordia, della giustizia, dell’amore. Chi lotta
per la giustizia non compie solo un’opera filantropica ma un vero e proprio
atto religioso. Il castigo che il ricco epulone si merita è dovuto proprio al
fatto che il suo comportamento contrasta radicalmente con la carità che è Dio.
Anche san Paolo nella seconda lettura (1Tm 6,11-16) ammonisce il suo discepolo
Timoteo: “tendi alla giustizia […], alla carità”.
Il
ricco epulone e Lazzaro sono il simbolo di due ordini di persone: i gaudenti
materialisti ed egoisti che limitano il loro orizzonte alla sfera presente, e
quelli invece che, nella loro povertà, conducono una vita orientata verso il
vero destino dell’uomo. La colletta della messa ci invita a essere come questi
ultimi quando ci fa chiedere a Dio la grazia affinché, camminando verso i beni
da lui promessi, “diventiamo partecipi della felicità eterna”. E l’orazione
sulle offerte afferma che la “sorgente di ogni benedizione”, non è da
ricercarsi nei beni materiali, ma nell’eucaristia.