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domenica 8 settembre 2019

LA RISCOPERTA DELLA CREATIVITÀ IN LITURGIA?


 

Rivista di Pastorale Liturgica (n. 335, 4/2019) ha pubblicato il dibattito sul tema degli “usi e abusi nella liturgia”, che ho sostenuto in questo blog tra il 23 e il 27 giugno scorso con il Prof. Andrea Grillo. In seguito, il Prof. Grillo è intervenuto nuovamente sull’argomento il giorno 1 di luglio nel suo blog Come se non col post “La riscoperta della creatività in liturgia”, testo riprodotto nel mio blog il 2 luglio con la promessa, fatta da me, di riprendere il dialogo in un tempo successivo. Passato ormai il periodo clou delle vacanze estive, vorrei fare qualche riflessione al riguardo.  

 

Giustamente Andrea afferma che “sarebbe ingiusto e astratto pensare ad un primato della norma sul rito o viceversa”. Infatti, per sua natura il rito è normativo. Il problema sorge quando viene ignorata o sottovalutata questa sua caratteristica e, di fatto si stabilisce il primato del rito sulla norma.

 

Ma come si evince dal titolo dell’ultimo post di Andrea, ciò che gli sta più a cuore è “difendere, nel modo più forte, il diritto di una ‘liturgia creativa’, non come scivolamento nel soggettivismo, ma come una esigenza intrinseca ad ogni atto rituale vero”. E in seguito aggiunge: “Perché mai non vi può essere solo una ‘preghiera eucaristica’ ma ve ne sono tante diverse? E se nella storia abbiamo costruito tante ‘anafore’ perché mai dovrebbe essere questa nostra generazione bloccata solo nel ripetere ciò che altri hanno creato?” Andrea difende questa sua posizione non come una novità, ma come “la ripresa di ciò che hanno fatto i cristiani per almeno un millennio”. Su queste affermazioni, vorrei fare alcune osservazioni.

 

Una cosa sono le novità introdotte con la recente riforma liturgica (preghiere eucaristiche e altro), cosa diversa è invece la “creatività” che una singola assemblea si arroga di mettere in opera; e qui parliamo di quest’ultima. Dire poi che una tale creatività è stata in vigore “per almeno un millennio”, storicamente non è esatto. Ciò che è provato dagli studi storici è che le istituzioni liturgiche hanno subito una prima unificazione al servizio dell’unità dell’impero carolingio. Ma fino a quel momento, le Chiese seguivano le tradizioni delle loro provincie o territori metropolitani come testimoniano numerosi concili locali dal sec. V/VI in poi. Con Gregorio VII, l’unità liturgica sarà interpretata come uniformità, sancita in seguito anche dal concilio di Trento. Col Vaticano II si è ritornato ad una certa decentralizzazione (cf. SC, nn. 37-40). Non consta quindi che le singole assemblee abbiano avuto nel primo millennio, mano libera nell’ordinamento delle celebrazioni liturgiche. Andrea si domanda poi perché mai questa nostra generazione dovrebbe essere “bloccata solo nel ripetere ciò che altri hanno creato?” Ma il carattere più proprio del rito non è la ripetitività? Il rito è un’azione programmata e ripetitiva.   

 

Verso la fine del suo intervento, Andrea afferma che io ritengo possibile celebrare in modo “puramente oggettivo”. La pura oggettività esiste solo in astratto. Come già ho spiegato nel mio primo intervento, ci può essere, anzi ci deve essere uno stile “creativo” nel celebrare rispettando ciò che prescrive il libro liturgico. Essendo il rito un fatto di linguaggio, è necessario esaltarne tutte le possibilità comunicative. Occorre quindi la personalizzazione del linguaggio verbale e non verbale della celebrazione, che non è da intendersi necessariamente come il cambiamento delle formule prestabilite tramite l’inserimento di accenti personali; più semplicemente e in prima istanza, essa consiste nell’assunzione del linguaggio liturgico nella sua forma prestabilita, come provocazione e come possibilità di esprimere con esso il proprio vissuto. Il rito prestabilito riesce ad avere il suo pieno significato e la sua forza solo quando da schema di azione (nel libro liturgico) diventa azione o atto linguistico (nella celebrazione).

 

Ogni celebrazione deve “calarsi nel vissuto”. Il rito come norma che regola la celebrazione non può essere ridotto alla sua formulazione letterale, ma va interpretato nel contesto esistenziale, storico, concreto in cui si svolge. Non si tratta di negare l’ordine oggettivo, ma di pensarlo a partire dall’esperienza della persona. Tra la libertà (di creatività) e ciò che le pone un limite (il rito proposto dal libro liturgico) c’è sempre una tensione dinamica e impegnativa, che non può essere azzerata cancellando uno dei due termini. Il rito va ogni volta, ogni giorno, in ogni circostanza riconquistato, personalizzato.

 

Credo che questa mia posizione è quella che lo stesso Andrea Grillo assieme a Luigi Girardi hanno sostenuto pochi anni fa nell’introduzione al primo volume del Commentario ai Documenti del Vaticano II, pubblicato nel 2014 dalla EDB, in cui si dice, tra l’altro, che l’illusione della sinistra ecclesiale è: “siccome è stata realizzata la riforma, il problema deve essere considerato risolto (oppure è risolvibile tramite piccole riforme o continui cambiamenti rituali che ogni singolo soggetto può permettersi di introdurre). Ma così non è e non potrà mai essere. La riforma offre nuovi testi, una nuova liturgia delle ore, un nuovo calendario, un nuovo rito di iniziazione cristiana, un nuovo Messale, ecc., ma tutto questo deve diventare principio di identità, calarsi nel vissuto, essere assunto dai corpi e dalle menti…” (p. 78).



M. Augé