LA RISCOPERTA DELLA CREATIVITÀ IN LITURGIA?
Rivista
di Pastorale Liturgica (n. 335, 4/2019) ha pubblicato il dibattito sul tema
degli “usi e abusi nella liturgia”, che ho sostenuto in questo blog tra il 23 e
il 27 giugno scorso con il Prof. Andrea Grillo. In seguito, il Prof. Grillo è
intervenuto nuovamente sull’argomento il giorno 1 di luglio nel suo blog Come
se non col post “La riscoperta della creatività in liturgia”, testo
riprodotto nel mio blog il 2 luglio con la promessa, fatta da me, di riprendere il dialogo in un tempo successivo.
Passato ormai il periodo clou delle vacanze estive, vorrei fare qualche
riflessione al riguardo.
Giustamente Andrea
afferma che “sarebbe ingiusto e astratto pensare ad un primato della norma sul
rito o viceversa”. Infatti, per sua natura il rito è normativo. Il problema
sorge quando viene ignorata o sottovalutata questa sua caratteristica e, di
fatto si stabilisce il primato del rito sulla norma.
Ma come si
evince dal titolo dell’ultimo post di Andrea, ciò che gli sta più a cuore è
“difendere, nel modo più forte, il diritto di una ‘liturgia creativa’, non come
scivolamento nel soggettivismo, ma come una esigenza intrinseca ad ogni atto
rituale vero”. E in seguito aggiunge: “Perché mai non vi può essere solo una
‘preghiera eucaristica’ ma ve ne sono tante diverse? E se nella storia abbiamo
costruito tante ‘anafore’ perché mai dovrebbe essere questa nostra generazione
bloccata solo nel ripetere ciò che altri hanno creato?” Andrea difende questa
sua posizione non come una novità, ma come “la ripresa di ciò che hanno fatto i
cristiani per almeno un millennio”. Su queste affermazioni, vorrei fare alcune
osservazioni.
Una cosa sono
le novità introdotte con la recente riforma liturgica (preghiere
eucaristiche e altro), cosa diversa è invece la “creatività” che una singola
assemblea si arroga di mettere in opera; e qui parliamo di quest’ultima. Dire
poi che una tale creatività è stata in vigore “per almeno un millennio”,
storicamente non è esatto. Ciò che è provato dagli studi storici è che le
istituzioni liturgiche hanno subito una prima unificazione al servizio
dell’unità dell’impero carolingio. Ma fino a quel momento, le Chiese seguivano
le tradizioni delle loro provincie o territori metropolitani come testimoniano
numerosi concili locali dal sec. V/VI in poi. Con Gregorio VII, l’unità liturgica sarà interpretata
come uniformità, sancita in seguito anche dal concilio di Trento. Col Vaticano
II si è ritornato ad una certa decentralizzazione (cf. SC, nn. 37-40). Non
consta quindi che le singole assemblee abbiano avuto nel primo millennio, mano
libera nell’ordinamento delle celebrazioni liturgiche. Andrea si domanda poi perché
mai questa nostra generazione dovrebbe essere “bloccata solo nel ripetere ciò
che altri hanno creato?” Ma il carattere più proprio del rito non è la
ripetitività? Il rito è un’azione programmata e ripetitiva.
Verso la fine
del suo intervento, Andrea afferma che io ritengo possibile celebrare in modo
“puramente oggettivo”. La pura oggettività esiste solo in astratto. Come già ho
spiegato nel mio primo intervento, ci può essere, anzi ci deve essere uno stile
“creativo” nel celebrare rispettando ciò che prescrive il libro liturgico.
Essendo il rito un fatto di linguaggio, è necessario esaltarne tutte le
possibilità comunicative. Occorre quindi la personalizzazione del linguaggio
verbale e non verbale della celebrazione, che non è da intendersi necessariamente
come il cambiamento delle formule prestabilite tramite l’inserimento di accenti
personali; più semplicemente e in prima istanza, essa consiste nell’assunzione
del linguaggio liturgico nella sua forma prestabilita, come provocazione e come
possibilità di esprimere con esso il proprio vissuto. Il rito prestabilito
riesce ad avere il suo pieno significato e la sua forza solo quando da schema
di azione (nel libro liturgico) diventa azione o atto linguistico (nella
celebrazione).
Ogni
celebrazione deve “calarsi nel vissuto”. Il rito come norma che regola la
celebrazione non può essere ridotto alla sua formulazione letterale, ma va
interpretato nel contesto esistenziale, storico, concreto in cui si svolge. Non
si tratta di negare l’ordine oggettivo, ma di pensarlo a partire
dall’esperienza della persona. Tra la libertà (di creatività) e ciò che le pone
un limite (il rito proposto dal libro liturgico) c’è sempre una tensione
dinamica e impegnativa, che non può essere azzerata cancellando uno dei due
termini. Il rito va ogni volta, ogni giorno, in ogni circostanza riconquistato,
personalizzato.
Credo che questa
mia posizione è quella che lo stesso Andrea Grillo assieme a Luigi Girardi
hanno sostenuto pochi anni fa nell’introduzione al primo volume del Commentario
ai Documenti del Vaticano II, pubblicato nel 2014 dalla EDB, in cui si dice,
tra l’altro, che l’illusione della sinistra ecclesiale è: “siccome è stata
realizzata la riforma, il problema deve essere considerato risolto (oppure è
risolvibile tramite piccole riforme o continui cambiamenti rituali che ogni
singolo soggetto può permettersi di introdurre). Ma così non è e non potrà mai
essere. La riforma offre nuovi testi, una nuova liturgia delle ore, un nuovo
calendario, un nuovo rito di iniziazione cristiana, un nuovo Messale, ecc., ma
tutto questo deve diventare principio di identità, calarsi nel vissuto, essere
assunto dai corpi e dalle menti…” (p. 78).
M. Augé