Pubblicato il 16 gennaio
2020 nel blog: Come se non
Il libro è
uscito, esattamente come preannunciato: si compone di una “nota del curatore”
(N. Diat), di una Introduzione dei due autori, di una prima parte scritta solo
da J. Ratzinger, di una seconda scritta solo da R. Sarah e di una Conclusione
scritta di nuovo a due mani.
La Nota del
curatore è irrilevante: serve solo a dimostrare che il giornalista conosce poco
l’argomento del libro. Vi sono poi la introduzione e la conclusione, che per
stile e per contenuti sembrano scritte dalla mano di Sarah, poiché assomigliano
molto alla sua parte. Vi sono poi le due parti principali: quella di J.
Ratzinger (21-54) che si intitola Il sacerdozio cattolico, e quella
di R. Sarah (55-128) che si intitola Amare fino alla fine. Sguardo
ecclesiologico e pastorale sul celibato sacerdotale.
Dopo aver
letto entrambe le parti, credo che sia giusto dedicare una breve presentazione
soltanto alla prima parte. La seconda, infatti, è talmente approssimativa,
contraddittoria, scomposta e piena di errori teologici e storici, da non poter
essere neppure considerata un discorso compiuto e coerente: vi si esprime un
abbozzo di visione del celibato che non ha alcun fondamento né nella storia né
nella realtà. Uno “sguardo” stravolto e distorto, talora anche violentemente
irrispettoso, che sorprende trovare proposto da colui che da 5 anni è il
responsabile più alto della Congregazione che si occupa di culto e di
sacramenti.
Ma veniamo
al testo di J. Ratzinger (non avrei usato il nome di Benedetto XVI nel libro,
visto che da papa regnante egli usava il suo nome di battesimo per firmare le
sue opere non magisteriali, mentre ora usa il nome papale per firmare
riflessioni teologiche strettamente personali).
Una
meditazione sul sacerdozio poco serena
Come ha
scritto P. Garrigues, la presentazione del sacerdozio proposta da J. Ratzinger
si rivela subito molto discutibile. E lo è, anzitutto, sul piano
metodologico.Curiosamente Ratzinger attribuisce la crisi in cui versa il
sacerdozio proprio ad un problema metodologico, che ritiene di risolvere
mediante una serie di passaggi altamente problematici. Li presento brevemente.
Il primo
passo muove una critica alla teologia, che avrebbe interrotto la tradizione di
“interpretazione cristologica dell’Antico Testamento”, così interrompendo il
rapporto tra teologia e culto (qui però non è chiaro perché solo una esegesi
dell’AT potrebbe conservare un rapporto tra teologia e culto).
Perciò una
corretta teologia del sacerdozio esigerebbe per Ratzinger una “struttura
esegetica fondamentale”. Da tale metodologia deriverebbe l’unica teologia
corretta, che Ratzinger esprime con le seguenti parole:
“L’atto
cultuale passa ormai attraverso un’offerta della totalità della propria vita
nell’amore. Il sacerdozio di Gesù Cristo ci fa entrare in una vita che
consiste nel diventare uno con lui e nel rinunciare a tutto ciò che appartiene
solo a noi. Per i sacerdoti questo è il fondamento della necessità del
celibato, come anche della preghiera liturgica, della meditazione della
Parola di Dio e della rinuncia ai beni materiali”. (24)
Diventare
“uno” con lui e rinunciare a tutto – che è una descrizione del discepolato
cristiano, ossia del sacerdozio battesimale – diventa immediatamente 4 cose
determinate, mediante un passaggio concettuale davvero molto, troppo rapido,
che si sposta dalla “descrizione della Chiesa” alla “ vita dei chierici”.
Preghiera liturgica, meditazione della Parola, rinuncia ai beni e celibato sono
messi in fila, consequenzialmente. E’ evidente che qui, sul piano della
argomentazione, si mescolano cose di generi molto diversi. E questo non è mai
un bel segnale. Se metto il celibato con l’ascolto della Parola, con la
preghiera liturgica, con la comunione dei beni, sto citando indirettamente il
libro degli Atti, al famoso versetto 2,42. Ma in quel versetto si parla di
tutto, ma non del celibato. Secondo una corretta metodologia esegetica non si
dovrebbero mescolare, fin dal principio, le carte del discorso.
Comunque
sia, nel primo paragrafo del suo testo, J. Ratzinger sviluppa proprio quella
che lui stesso chiama: “Il formarsi del sacerdozio neotestamentario
nell’esegesi critologico-pneumatologica”.
In questa
sezione del suo testo si presenta lo sviluppo del sacerdozio partendo dalla
“comunità di laici” che sta intorno a Gesù. La critica profetica del culto
trova nei discorsi di Gesù sul sabato e sul tempio dei “topoi” che però possono
essere interpretati soltanto dal suo gesto fondamentale, quello dell’ultima
cena. Proprio nell’ultima cena si pone il nuovo “atto di culto” che è
costituito dalla interpretazione della Croce e della Risurrezione. Ma questa
interpretazione avviene, secondo Ratzinger, unificando in un’unica realtà i
“ministeri” di vescovo, presbitero e diacono e il “sacerdozio” del
Sommosacerdote, del Sacerdote e dei leviti. Così si crea un perfetto
parallelismo tra NT e AT, e soprattutto si propone questa “esegesi cristologica
e pneumatologica dell’AT” come unica via per intendere il sacerdozio cristiano.
Non una parola è detta del fatto che tale sacerdozio cristologico, fatto di
comunione con Dio e di rinuncia a se stessi, è il cuore del battesimo e della
vita cristiana comune, ossia è “sacerdozio battesimale”, è “sacerdozio comune”.
Ma Ratzinger, ritenendo che quella proposta sia “la verità del testo” e non una
sua “lettura allegorica”, non riesce ad uscire da una precomprensione
sommosacerdotale, che rischia di escludere ogni possibile lettura del
sacerdozio comune. Il solo sacerdozio, nella presentazione di Ratzinger, sembra
essere quello gerarchico. Così, ovviamente, l’unica visione coerente può essere
quella tridentina, certamente non quella del Concilio Vaticano II. In altri
termini, la “istituzione di un nuovo culto” – che Ratzinger descrive con grande
efficacia a p. 33, viene però riferita sostanzialmente ai “chierici”, non alla
Chiesa. Questo, a me pare, un errore metodologico molto pesante, che
compromette l’intero discorso. E tale lettura allegorica, che si pretende di
far diventare normativa per la “ontologia del sacerdozio” finisce,
inevitabilmente per trovare in Lutero e nel Concilio Vaticano II – unificati
apologeticamente nello stesso girone dei reprobi – gli interlocutori
inadempienti, perché non capiscono più questa “esegesi
cristologico-pneumatologica” per la quale il “nuovo culto” non riguarda
anzitutto la Chiesa, ma i preti.
Esempi
storici e biblici piuttosto vaghi
A
questa prima parte, che è centrale per la argomentazione, seguono una serie di
“applicazioni storiche” e “ermeneutiche bibliche”, volte a “dimostrare” questa
tesi. Bisogna riconoscere che la tesi, di per sé piuttosto fragile, non trova
molta forza nelle applicazioni storiche, nelle quali i dati non riescono a
suffragarla in modo convincente.
Mi soffermo
soltanto su un punto. La valutazione a cui si sottopone la tradizione ebraica
della “astinenza sessuale” prima della celebrazione del culto e la scelta del
celibato come disciplina è certamente basata su dati storici, sulla
trasformazione del culto cristiano in culto quotidiano, ma la soluzione
adottata nella storia, nella sua contingenza sociale, culturale ed ecclesiale,
viene assunta come “astinenza ontologica”, senza alcuna valutazione del
mutamento della comprensione del matrimonio, della sessualità e della identità
dei soggetti. Pretendere di dimostrare oggi la evidenza del celibato con un
concetto di “purità rituale” che la storia ha profondamente trasformato non
sembra una forma convincente di metodologia teologica. Si fa dire alla storia
ciò che si vuole e si tappa la bocca al presente solo “per autorità”. Così pure
la lettura del “sacerdozio uxorato” come accompagnato dalla esigenza della astinenza
assolutizza e generalizza in modo universale un elemento che la storia attesta,
ma non in modo incontrovertibile. Che cosa è stato non ci dice, immediatamente,
che cosa deve essere. Proprio qui consiste, come insegna Romano Guardini, la
differenza della teologia sistematica.
Altri punti
problematici emergono dalle piccole esegesi che Ratzinger propone di
testi-chiave, per cercare di confermare la sua metodologia. Il testo del Salmo
16 viene riletto come “ammissione alla comunità sacerdotale”. Qui, come è
evidente, si usano le parole in una accezione non aggiornata. Sorprende che si
possa parlare, ancora oggi, di “comunità sacerdotale” senza tener conto che
in Lumen Gentium tale termine indica “tutta la comunità
ecclesiale”. E’ ovvio che, se riferita solo agli “ordinati”, la cosiddetta
“esegesi cristologico-spirituali” ricostruisce, immediatamente, la Chiesa
preconciliare. Come volevasi dimostrare.
Così pure la
interpretazione della II Preghiera Eucaristica attribuisce al “sacerdote” che
presiede le parole che, non nel Deuteronomio, ma nel testo eucaristico, devono
essere riferite a tutti i battezzati. Curiosamente Ratzinger trova anche qui la
occasione per accusare “i liturgisti” di aver studiato le parole da lui citate
solo per invitare a “stare in piedi” e non “in ginocchio”. In realtà molto più
urgente è stabilire che il testo non parla “del prete”, ma della “Chiesa”. E
non c’è bisogno di un liturgista per dirlo.
In
conclusione
Un’ultima
parola deve essere dedicata alla differenza tra il testo di Ratzinger e il
testo di Sarah. Il primo è un testo teologico, il secondo voleva essere solo un
discorso spirituale. Come ho detto, il secondo testo è fuori concorso. Ma il
primo, proprio perché si muove sul piano dell’esercizio della ragione
teologica, porta una maggiore responsabilità. In un certo senso, le
esagerazioni, preoccupanti o esilaranti, contenute nel testo di Sarah sono in
qualche modo rese possibili, e quasi benedette, da una teologia del sacerdozio
troppo fragile e troppo unilaterale. Forse il teologo avrebbe avuto bisogno di
un altro cardinale come coautore. Ma forse il cardinale avrebbe avuto bisogno
di essere aiutato da una teologia meno accondiscendente verso le derive
clericali della identità dei ministri ordinati. Insomma, per esprimere un
atto di “filiale obbedienza”, credo che si sarebbe potuto pensare a qualcosa di
meglio.