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giovedì 16 gennaio 2020

La fragile ontologia del celibato. Perplessità nella mente e scandalo nel cuore





Pubblicato il 16 gennaio 2020 nel blog: Come se non

Il libro è uscito, esattamente come preannunciato: si compone di una “nota del curatore” (N. Diat), di una Introduzione dei due autori, di una prima parte scritta solo da J. Ratzinger, di una seconda scritta solo da R. Sarah e di una Conclusione scritta di nuovo a due mani.
La Nota del curatore è irrilevante: serve solo a dimostrare che il giornalista conosce poco l’argomento del libro. Vi sono poi la introduzione e la conclusione, che per stile e per contenuti sembrano scritte dalla mano di Sarah, poiché assomigliano molto alla sua parte. Vi sono poi le due parti principali: quella di J. Ratzinger (21-54) che si intitola Il sacerdozio cattolico, e quella di R. Sarah (55-128) che si intitola Amare fino alla fine. Sguardo ecclesiologico e pastorale sul celibato sacerdotale.
Dopo aver letto entrambe le parti, credo che sia giusto dedicare una breve presentazione soltanto alla prima parte. La seconda, infatti, è talmente approssimativa, contraddittoria, scomposta e piena di errori teologici e storici, da non poter essere neppure considerata un discorso compiuto e coerente: vi si esprime un abbozzo di visione del celibato che non ha alcun fondamento né nella storia né nella realtà. Uno “sguardo” stravolto e distorto, talora anche violentemente irrispettoso, che sorprende trovare proposto da colui che da 5 anni è il responsabile più alto della Congregazione che si occupa di culto e di sacramenti.
Ma veniamo al testo di J. Ratzinger (non avrei usato il nome di Benedetto XVI nel libro, visto che da papa regnante egli usava il suo nome di battesimo per firmare le sue opere non magisteriali, mentre ora usa il nome papale per firmare riflessioni teologiche strettamente personali).
Una meditazione sul sacerdozio poco serena
Come ha scritto P. Garrigues, la presentazione del sacerdozio proposta da J. Ratzinger si rivela subito molto discutibile. E lo è, anzitutto, sul piano metodologico.Curiosamente Ratzinger attribuisce la crisi in cui versa il sacerdozio proprio ad un problema metodologico, che ritiene di risolvere mediante una serie di passaggi altamente problematici. Li presento brevemente.
Il primo passo muove una critica alla teologia, che avrebbe interrotto la tradizione di “interpretazione cristologica dell’Antico Testamento”, così interrompendo il rapporto tra teologia e culto (qui però non è chiaro perché solo una esegesi dell’AT potrebbe conservare un rapporto tra teologia e culto).
Perciò una corretta teologia del sacerdozio esigerebbe per Ratzinger una “struttura esegetica fondamentale”. Da tale metodologia deriverebbe l’unica teologia corretta, che Ratzinger esprime con le seguenti parole:
“L’atto cultuale passa ormai attraverso un’offerta della totalità della propria vita nell’amore. Il sacerdozio di Gesù Cristo ci fa entrare in una vita che consiste nel diventare uno con lui e nel rinunciare a tutto ciò che appartiene solo a noi. Per i sacerdoti questo è il fondamento della necessità del celibato, come anche della preghiera liturgica, della meditazione della Parola di Dio e della rinuncia ai beni materiali”. (24)
 Diventare “uno” con lui e rinunciare a tutto – che è una descrizione del discepolato cristiano, ossia del sacerdozio battesimale – diventa immediatamente 4 cose determinate, mediante un passaggio concettuale davvero molto, troppo rapido, che si sposta dalla “descrizione della Chiesa” alla “ vita dei chierici”. Preghiera liturgica, meditazione della Parola, rinuncia ai beni e celibato sono messi in fila, consequenzialmente. E’ evidente che qui, sul piano della argomentazione, si mescolano cose di generi molto diversi. E questo non è mai un bel segnale. Se metto il celibato con l’ascolto della Parola, con la preghiera liturgica, con la comunione dei beni, sto citando indirettamente il libro degli Atti, al famoso versetto 2,42. Ma in quel versetto si parla di tutto, ma non del celibato. Secondo una corretta metodologia esegetica non si dovrebbero mescolare, fin dal principio, le carte del discorso.
 Comunque sia, nel primo paragrafo del suo testo, J. Ratzinger sviluppa proprio quella che lui stesso chiama: “Il formarsi del sacerdozio neotestamentario nell’esegesi critologico-pneumatologica”.
In questa sezione del suo testo si presenta lo sviluppo del sacerdozio partendo dalla “comunità di laici” che sta intorno a Gesù. La critica profetica del culto trova nei discorsi di Gesù sul sabato e sul tempio dei “topoi” che però possono essere interpretati soltanto dal suo gesto fondamentale, quello dell’ultima cena. Proprio nell’ultima cena si pone il nuovo “atto di culto” che è costituito dalla interpretazione della Croce e della Risurrezione. Ma questa interpretazione avviene, secondo Ratzinger, unificando in un’unica realtà i “ministeri” di vescovo, presbitero e diacono e il “sacerdozio” del Sommosacerdote, del Sacerdote e dei leviti. Così si crea un perfetto parallelismo tra NT e AT, e soprattutto si propone questa “esegesi cristologica e pneumatologica dell’AT” come unica via per intendere il sacerdozio cristiano. Non una parola è detta del fatto che tale sacerdozio cristologico, fatto di comunione con Dio e di rinuncia a se stessi, è il cuore del battesimo e della vita cristiana comune, ossia è “sacerdozio battesimale”, è “sacerdozio comune”. Ma Ratzinger, ritenendo che quella proposta sia “la verità del testo” e non una sua “lettura allegorica”, non riesce ad uscire da una precomprensione sommosacerdotale, che rischia di escludere ogni possibile lettura del sacerdozio comune. Il solo sacerdozio, nella presentazione di Ratzinger, sembra essere quello gerarchico. Così, ovviamente, l’unica visione coerente può essere quella tridentina, certamente non quella del Concilio Vaticano II. In altri termini, la “istituzione di un nuovo culto” – che Ratzinger descrive con grande efficacia a p. 33, viene però riferita sostanzialmente ai “chierici”, non alla Chiesa. Questo, a me pare, un errore metodologico molto pesante, che compromette l’intero discorso. E tale lettura allegorica, che si pretende di far diventare normativa per la “ontologia del sacerdozio” finisce, inevitabilmente per trovare in Lutero e nel Concilio Vaticano II – unificati apologeticamente nello stesso girone dei reprobi – gli interlocutori inadempienti, perché non capiscono più questa “esegesi cristologico-pneumatologica” per la quale il “nuovo culto” non riguarda anzitutto la Chiesa, ma i preti.
 Esempi storici e biblici piuttosto vaghi
 A questa prima parte, che è centrale per la argomentazione, seguono una serie di “applicazioni storiche” e “ermeneutiche bibliche”, volte a “dimostrare” questa tesi. Bisogna riconoscere che la tesi, di per sé piuttosto fragile, non trova molta forza nelle applicazioni storiche, nelle quali i dati non riescono a suffragarla in modo convincente.
Mi soffermo soltanto su un punto. La valutazione a cui si sottopone la tradizione ebraica della “astinenza sessuale” prima della celebrazione del culto e la scelta del celibato come disciplina è certamente basata su dati storici, sulla trasformazione del culto cristiano in culto quotidiano, ma la soluzione adottata nella storia, nella sua contingenza sociale, culturale ed ecclesiale, viene assunta come “astinenza ontologica”, senza alcuna valutazione del mutamento della comprensione del matrimonio, della sessualità e della identità dei soggetti. Pretendere di dimostrare oggi la evidenza del celibato con un concetto di “purità rituale” che la storia ha profondamente trasformato non sembra una forma convincente di metodologia teologica. Si fa dire alla storia ciò che si vuole e si tappa la bocca al presente solo “per autorità”. Così pure la lettura del “sacerdozio uxorato” come accompagnato dalla esigenza della astinenza assolutizza e generalizza in modo universale un elemento che la storia attesta, ma non in modo incontrovertibile. Che cosa è stato non ci dice, immediatamente, che cosa deve essere. Proprio qui consiste, come insegna Romano Guardini, la differenza della teologia sistematica.
Altri punti problematici emergono dalle piccole esegesi che Ratzinger propone di testi-chiave, per cercare di confermare la sua metodologia. Il testo del Salmo 16 viene riletto come “ammissione alla comunità sacerdotale”. Qui, come è evidente, si usano le parole in una accezione non aggiornata. Sorprende che si possa parlare, ancora oggi, di “comunità sacerdotale” senza tener conto che in Lumen Gentium tale termine indica “tutta la comunità ecclesiale”. E’ ovvio che, se riferita solo agli “ordinati”, la cosiddetta “esegesi cristologico-spirituali” ricostruisce, immediatamente, la Chiesa preconciliare. Come volevasi dimostrare.
Così pure la interpretazione della II Preghiera Eucaristica attribuisce al “sacerdote” che presiede le parole che, non nel Deuteronomio, ma nel testo eucaristico, devono essere riferite a tutti i battezzati. Curiosamente Ratzinger trova anche qui la occasione per accusare “i liturgisti” di aver studiato le parole da lui citate solo per invitare a “stare in piedi” e non “in ginocchio”. In realtà molto più urgente è stabilire che il testo non parla “del prete”, ma della “Chiesa”. E non c’è bisogno di un liturgista per dirlo.
 In conclusione
Un’ultima parola deve essere dedicata alla differenza tra il testo di Ratzinger e il testo di Sarah. Il primo è un testo teologico, il secondo voleva essere solo un discorso spirituale. Come ho detto, il secondo testo è fuori concorso. Ma il primo, proprio perché si muove sul piano dell’esercizio della ragione teologica, porta una maggiore responsabilità. In un certo senso, le esagerazioni, preoccupanti o esilaranti, contenute nel testo di Sarah sono in qualche modo rese possibili, e quasi benedette, da una teologia del sacerdozio troppo fragile e troppo unilaterale. Forse il teologo avrebbe avuto bisogno di un altro cardinale come coautore. Ma forse il cardinale avrebbe avuto bisogno di essere aiutato da una teologia meno accondiscendente verso le derive clericali della identità dei ministri ordinati. Insomma, per esprimere un atto di “filiale obbedienza”, credo che si sarebbe potuto pensare a qualcosa di meglio.