Il Magnificat si
apre con una voce solista che parla in prima persona: “Anima mia […] mio
spirito […] mio salvatore […] la sua serva […] mi chiameranno beata […] ha
fatto in me […]”. Poi è coinvolto tutto il coro dei “poveri del Signore” (in
ebraico gli ‘anawim), cioè i giusti e fedeli già presenti nell’Antico
Testamento, che elencano in sette verbi greci all’aoristo le azioni salvifiche
di Dio, in difesa degli ultimi e dei miseri contro i potenti e i ricchi della
terra: “Ha spiegato la potenza […] ha disperso i superbi […] ha rovesciato i
potenti […] ha innalzato gli umili […] ha ricolmato gli affamati […] ha respinto
i ricchi […] ha soccorso Israele […]”.
È un canto della Chiesa
delle origini – almeno nello stato attuale della citazione lucana – che è messo
sulle labbra di Maria per esaltare le scelte di Dio, estrose e sconcertanti
agli occhi degli uomini. “Dio ha scelto ciò che è debole per confondere i
forti, ciò che ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le
cose che sono”, scriveva Paolo nella Prima lettera ai cristiani di Corinto
(1,27-28).
In parallelo al Magnificat
può essere posto il cantico intonato da Zaccaria, il padre del Battista, dopo
la nascita del figlio. Intitolato anch’esso dalla tradizione con la prima
parola della versione latina, Benedictus, l’inno si compone nell’originale
greco di Luca di due sole frasi monumentali (Lc 1,68-75 e 76-79). È quasi una
sintesi di tutta la storia biblica che sta ora approdando al suo apice. La
promessa e l’alleanza divine, che avevano avuto le loro tappe più significative
in Abramo e in Davide, ora in Cristo raggiungono la loro pienezza.
[…] L’ultimo canto
che Luca incastona nel tessuto narrativo del suo “Vangelo dell’infanzia” è
pronunciato nel tempio di Gerusalemme da “un uomo giusto e timorato di Dio” di
nome Simeone (2,25.35). Egli raffigura tutta l’attesa dell’Israele fedele che
riconosce nel piccolo Gesù, presentato al tempio per essere riscattato come
tutti i primogeniti ebrei (considerati appartenenti a Dio, secondo la norma
biblica presente in Es 13), l’attuazione della sua speranza. Egli pronuncia
anche un severo oracolo sulla storia futura, che sarà quasi lacerata dalla presenza
di Cristo: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele,
segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (2,34).
Ma il suo canto è
dolce, è il Nunc dimittis, così chiamato dalle prime parole della
versione latina di san Girolamo: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo
servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la
tua salvezza, da te preparata davanti a tutti i popoli, luce per rivelarti alle
genti e gloria del tuo popolo Israele” (2,29-32). Il breve “salmo” di Simeone,
fin da V secolo è divenuto la preghiera serale del cristiano, il canto della
Compieta, l’orazione liturgica serale. Anzi, c’è chi ha ipotizzato che questo
fosse il canto funebre di un fedele giusto, messo in bocca a Simeone.
Fonte: Gianfranco
Ravasi, Biografia di Gesù secondo i Vangeli, Raffaello Cortina Editore,
Milano 2021, 157-158.