At 13,14.43-52; Sal 99; Ap
7,9.14b-17; Gv 10,27-30
Il Sal 99, da cui è tratto
il salmo responsoriale, veniva, probabilmente, cantato mentre il popolo eletto
entrava nel tempio durante le grandi solennità. Con questo inno Israele
proclama la sua fede nel Signore “buono” il cui amore è eterno e riafferma la
sua coscienza di essere il popolo dell’alleanza, legato da un rapporto intenso
e personale col suo Dio. Sullo sfondo di questo testo, si può leggere tutta la
storia di Israele. La bontà e la fedeltà di Dio si sono manifestate pienamente
in Cristo, ed egli, nostro pastore, con la morte e risurrezione, ci ha fatto
“suo popolo e gregge del suo pascolo”. Cristo è il pastore che porta ai pascoli
della vita. E’ su questa immagine che insiste particolarmente la liturgia
odierna.
Nel brano evangelico, Gesù si presenta come il vero
pastore dell’umanità, che stabilisce uno stretto rapporto di conoscenza o esperienza, di unione e intimità con l’uomo,
lo guida e lo conduce alla vita eterna. La seconda lettura ci riporta alla fase
finale del regno, a quella celeste, quando il gregge di Cristo avrà già raggiunto
i pascoli eterni e sarà una moltitudine immensa, che nessuno può contare;
l’Agnello immolato e vittorioso sarà il loro pastore e tergerà ogni lacrima dai
loro occhi. Nel frattempo, la Chiesa, seguendo l’esempio degli apostoli (cf.
prima lettura), continua ad annunciare a tutte le genti “sino all’estremità della
terra” la salvezza in Cristo.
Per meglio capire le parole di Gesù che si presenta come
buon pastore, bisogna tener conto del contesto più generale in cui egli ha
fatto questa affermazione. Con l’immagine del buon pastore, Gesù intende rispondere
in qualche modo a coloro che gli chiedono insistentemente se sia lui il Messia.
Per i suoi interlocutori il Messia era considerato perlopiù una sorta di figura
politica, un personaggio di potere. Il Signore invece scegliendo l’immagine del
buon pastore rivela in quale altro modo inatteso egli sia il Messia. Egli non
avanza pretesa alcuna di dominio sull’uomo, ma solo una proposta di amore e di
servizio che arriva fino al dono della vita.
Il Figlio di Dio, facendosi uomo, si è avvicinato ad ogni
uomo, lo ha chiamato per nome, lo ha amato con cuore di uomo fino a dare la
propria vita per quest’uomo. Quando Gesù dice: “Io dò loro la vita eterna” non
parla di qualcosa di esterno. La “vita eterna” nel vocabolario di Giovanni è
semplicemente un sinonimo di “vita divina”, quindi di partecipazione alla
stessa esistenza del Pastore. Possiamo ricordare al riguardo una ardita
affermazione di sant’Agostino: quando egli intende esprimere il mistero di comunione
che si stabilisce tra Dio e l’uomo redento, afferma con una bellissima
espressione che Dio è “più intimo a me di me stesso”. Scoprendoci nel cuore di
Dio, smetteremo di restare ripiegati sulle nostre piccole paure.
Gesù afferma che egli “conosce” le sue pecorelle, cioè
Gesù entra nella profondità personale della creatura amata che gli risponde con
l’ascolto e l’adesione della fede. Infatti, “ascoltare” è per l’uomo apertura
esistenziale all’altro, è attenzione alla sua persona prima ancora che alle sue
parole. Un uomo o una donna che non ascoltano, che non sono disposti ad aprirsi
e a ricevere nulla dagli altri, non saranno in grado poi di comunicare, di dare
qualcosa agli altri. La domenica del buon pastore ci riporta ai pastori della
Chiesa. Il Signore chiama, ha bisogno di uomini e donne che si dedichino in modo
particolare all’annuncio del vangelo radunando la comunità attorno alla mensa
della Parola e dell’Eucaristia e donando a piene mani il perdono e la tenerezza
di Dio.