Sir 35,12-14.16-18; Sal 33;
2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
Il Sal 33, salmo
responsoriale, è un canto di gioia e di speranza di un povero, che si sente
amato dal Signore sperimentando la gioia e i frutti della sua fedeltà. Il
“povero”, di cui parla il testo, è colui che con cuore umile e riconoscente
cerca rifugio solo in Dio, sfidando le manovre degli ingiusti con la sua fede
nuda. Il Signore ascolta il grido dei poveri, degli umili, di coloro che hanno
il cuore ferito, e li salva da tutte le loro angosce. La speranza dei poveri si
compie in Cristo; san Luca fa cominciare la missione di Gesù con la citazione
di Is 61,1: “mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,18).
C’è una certa continuità
tra le letture della domenica scorsa e quelle odierne; è ancora il tema della
preghiera, infatti, che ritorna con insistenza, sia pure da un particolare
angolo visuale, che è quello della speciale attenzione che Dio rivolge alla
preghiera dell’umile e del povero. La prima lettura ci ricorda che Dio è giusto;
non v’è presso di lui preferenze di persone e, quindi, non può essere né comprato,
né corrotto. Davanti a lui non contano le apparenze. Egli esaudisce chi con
umiltà e amore lo supplica. L’insegnamento della parabola del fariseo e del
pubblicano, riportata dal vangelo, si muove sulla stessa linea: il pubblicano,
che si riconosce umilmente peccatore, torna a casa giustificato; il fariseo,
che si vanta delle sue opere e disprezza gli altri, non viene invece
giustificato. Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che, ormai al termine
della sua vita, ne fa un bilancio fiducioso e sereno e si affida al Signore,
giusto giudice, che gli darà la corona di giustizia. La società in cui viviamo
esalta i potenti, i forti, coloro che con la loro attività hanno raggiunto
denaro, sicurezza e prestigio. Sono essi ad avere successo ed a diventare i
modelli a cui facciamo volentieri riferimento. Presso Dio invece è il povero,
l’oppresso e l’umile che ha garanzia di successo. I criteri di valutazione
appaiono rovesciati. Dio non misura con le misure umane. Egli guarda il cuore
dell’uomo.
Il vangelo di questa
domenica ci ammonisce a lasciare un po’ di spazio al Signore, a non presumere,
a non pretendere, a non passare il tempo ad elencare i nostri meriti. Siamo
tutti nudi davanti a Dio, tutti mendicanti. La giustificazione, cioè la
salvezza, non è certo frutto della nostra giustizia, né delle nostre risorse di
creature. La giustificazione è anzitutto un dono, è una grazia che viene dalla
misericordia di Dio. Afferma san Giovanni che il cristiano non è figlio di Dio
per nascita (Gv 1,13) ma perché è rinato, perché è stato rigenerato dall’alto
mediante lo Spirito (Gv 3,5-8). Nella nostra vita tutto è dono, tutto è grazia.
San Paolo riconosce che “per grazia di Dio” è quello che è (1Cor 15,10).
D’altra parte, l’orazione colletta ci ricorda che per ottenere il dono di Dio,
dobbiamo amare ciò che egli comanda; la giustificazione chiama in causa l’uomo
che con la sua libertà è chiamato a corrispondere al dono di Dio. Infatti, la
giustificazione non è un atto magico che avviene ineluttabilmente ma una azione
che inserisce la nostra libertà in una situazione nuova originata dal dono di
Dio.
L’eucaristia è la mensa alla
quale il Cristo invita i poveri, i piccoli e gli umili come al convito del
regno di Dio (cf Mt 5,3; Lc 6,20). Prima di avvicinarci alla comunione
proclamiamo con il centurione del vangelo: “O Signore, non sono degno di
partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato” (cf.
Mt 8,8). Ma l’eucaristia è anche il massimo della azione salvifica del Risorto
e la anticipazione della condizione definitiva del salvato.