In Ex 3,14, a Mosè che gli
chiede come dovrà rispondere agli ebrei che lo interrogano sul nome di Dio,
Jahwèh risponde ehyé ašer ehyé, “sono colui che sono”. La Settanta,
prodotta in un ambiente allenistico, e quindi a contatto con la filosofia
greca, traduce questo nome con egó eimi ho õn, cioè col termine
tecnico per l’essere (ho õn). Maimonide, commentando questo passo, si
mostra perfettamente cosciente delle implicazioni filosofiche di questo nome di
Dio: “Dio gli diede allora una conoscenza che doveva comunicare loro per l’affermazione
dell’esistenza di Dio, cioè ehyé ašer ehyé. Si tratta di un nome
derivato da haya, che designa l’esistenza, poiché haya significa “fu”
e la lingua ebraica non distingue tra “essere” e “esistere”. Tutto il mistero è
nella ripetizione, in forma di attributo, di questo termine che significa l’esistenza,
poiché la parola ašer (chi), essendo un nome incompleto […] esige che si
esprima l’attributo che gli è congiunto. Esprimendo il primo termine, che è il
soggetto, con ehyé e il secondo termine, che gli funge da attributo, con
lo stesso nome ehyé, si afferma che il soggetto è identico all’attributo.
E questa è una spiegazione dell’idea che “Dio esiste, ma non attraverso un
aggiungere l’esistenza”, il che si interpreta in questo modo: “L’essere che è l’essere”,
cioè l’essere necessario.
Fonte: Giorgio Agamben, Horkos.
Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (Saggi 82),
Quodlibet, Macerata 2023, 69-70.