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domenica 26 novembre 2017

AVVENTO



Il termine latino adventus (traduzione del greco parousía o anche epipháneia),  nel linguaggio cultuale pagano significava la venuta annuale della divinità nel suo tempio per visitare i suoi fedeli. Il Cronografo romano del 354 usa la formula Adventus Divi per designare il giorno anniversario dell’ascesa al trono di Costantino. Negli autori cristiani dei secoli III-IV, adventus è, tra l’altro, uno dei termini classici per indicare la venuta del Figlio di Dio in mezzo agli uomini, la sua manifestazione nel tempio della sua carne[1]. Il termine negli antichi Sacramentari romani viene adoperato per indicare sia la venuta del Figlio di Dio nella carne, l’adventus secundum carnem, che il suo ritorno alla fine dei tempi: in secundo cum venerit in maiestate sua (GrH, n. 813). Se Adventus, Natale, Epiphania esprimono la stessa realtà fondamentale, ci domandiamo come Adventus è passato a designare il periodo liturgico preparatorio al Natale.

Alla fine del IV secolo, troviamo in Gallia e in Spagna le prime tracce di un tempo di preparazione all’Epifania. La testimonianza più antica sarebbe un testo attribuito a sant’Ilario di Poitiers (+ 367), dove si parla di tre settimane preparatorie all’Epifania[2]. Il canone 4 del Concilio I di Zaragoza, celebrato nell’anno 380, invita i fedeli a frequentare l’assemblea durante le tre settimane che precedono la festa dell’Epifania[3]. E’ un periodo che ha un carattere vagamente ascetico senza specifiche espressioni liturgiche. Sembra che si tratti di un tempo di preparazione al battesimo che nelle Chiese ispano-gallicane si conferiva, secondo l’uso orientale, nel giorno dell’Epifania. Nel V secolo abbiamo informazioni più precise in Gallia; la notizia più importante è l’ordinamento del digiuno di Perpetuo di Tours (+ 490). Si tratta di un digiuno tre volte la settimana nel tempo che va dalla festa di san Martino (11 novembre) a Natale. J.A. Jungmann crede che questa disposizione si fonda su una originaria “Quaresima di san Martino”[4].

Nella Chiesa di Roma, dove la celebrazione del battesimo nell’Epifania non è stato mai in vigore, non si hanno notizie di una preparazione al Natale prima della seconda metà del secolo VI; essa però fin dalla sua origine è stata una specifica istituzione liturgica. I più antichi documenti al riguardo sono i testi liturgici del GeV e, in seguito, quelli del GrH. I formulari delle Tempora del mese di dicembre ebbero un significato indipendente dalla preparazione al Natale.




 [1] Cf Cipriano, Testimoniorum adversus Judaeos 2,13: PL 4,735; Ilario, Tractatus super psalmos 118,16,15: PL 9,612.
 [2] Su questo testo e la sua autenticità, cf A. Wilmart, Le parétendu “Liber Officiorum” de Saint Hilaire et l'Avent liturgique, in Revue Bénédictine 27 (1910) 500-513.
 [3] Cf  J. Vives (ed.), Concilios visigóticos e hispano-romanos, Barcelona-Madrid 1963, 17.
 [4] Cf  J.A. Jungmann, Advent und Voradvent,  Gewordene Liturgie: Studien und Durchblicke. Innsbruck:   F. Rauch1941237-249.

venerdì 24 novembre 2017

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 26 Novembre 2014 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

 

Ez 34,11-12.15-17; Sal 22 (23); 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46

Celebriamo Cristo “Re dell’universo”. Per comprendere correttamente questo titolo dato a Cristo bisogna riferirsi alla tradizione biblica del Dio re-pastore. L’immagine del “re” e del “pastore” nell’antichità erano interscambiabili; così come quelle del “gregge” e del “regno”. Il Sal 22 parla di Dio Pastore buono che pasce il suo popolo, lo fa riposare su pascoli erbosi e lo conduce ad acque tranquille. Nella persona di Cristo, il Dio che fu Pastore e Ospite di Israele, si è fatto incontro agli uomini con un volto umano e con amore e bontà che superano ogni intendimento. Il salmo esprime la grande fiducia nel Signore che illumina, conforta e guida i credenti nei sentieri della vita.

L’anno liturgico si chiude sottolineando la centralità di Cristo nella storia e nella vita dell’uomo nonché il suo primato sull’universo. In effetti la solennità di Cristo Re dell’universo non intende riconoscere a Cristo un semplice titolo onorifico, ma il suo diritto a essere il centro della storia umana, la sua chiave di lettura. Il senso della storia del mondo e della vita dell’uomo si decide nel rapporto con Gesù Cristo e il rapporto con Gesù Cristo si decide nel rapporto coi fratelli. Questo doppio tema è quello che illustrano le letture bibliche odierne.

La prima lettura contiene un annuncio di speranza che il profeta Ezechiele fa pervenire al popolo d’Israele in un momento travagliato della sua storia. Dinanzi alla incapacità dei capi politici e religiosi d’Israele di essere autentiche guide al servizio del popolo, è Dio stesso che promette di prendersi cura d’Israele. Il Signore “pascerà” direttamente il suo gregge, nella speranza che questi risponderà alle sue premure. La tenerezza infinita di Dio è l’altra faccia della sua sovrana autorità, della sua onnipotenza.

La profezia di Ezechiele trova pieno compimento in Cristo. Il brano della lettera ai Corinzi della seconda lettura contempla la storia come un processo attraverso il quale il mondo deve essere sottomesso alla sovranità redentrice di Gesù. Il progetto di Dio è l’uomo liberato dalla schiavitù del peccato e ricondotto alla pienezza della verità e dell’amore e questo progetto è stato realizzato da Gesù Cristo. E quando tutto sarà stato sottomesso a Cristo, “anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”. Queste parole ci introducono nel brano evangelico d’oggi. Infatti, san Matteo ci presenta a Cristo Signore quando verrà nella sua gloria a giudicare il mondo. Il criterio con cui Cristo giudicherà “tutti i popoli” sarà quello di aver amato, servito, aiutato, consolato chi si sia trovato in situazione di miseria, di povertà, di sofferenza, di malattia, di ingiustizia. Gesù afferma che in ognuna di queste situazioni lui era presente, per cui ogni gesto compiuto in favore del fratello in realtà era diretto a lui. Chi ha amato i fratelli di fatto ha amato Cristo. Ecco perché riconoscere la regalità di Cristo significa imitarne lo spirito, incontrarlo nel fratello e impegnarsi a liberarlo dalle sue necessità. L’amore attua e dilata i confini del regno di Cristo, che non è una realtà né geografica né spaziale né temporale, ma è la sovranità del suo amore, che si attua già nel cuore di ogni uomo e nelle realizzazioni terrene e si compirà in pienezza alla fine quando “Dio sarà tutto in tutti” (cf. seconda lettura). Sintetizzando possiamo dire, riferendoci al grandioso scenario del giudizio finale che “alla sera della nostra vita saremo giudicati sull’amore” (San Giovanni della Croce).


domenica 19 novembre 2017

LITURGIA E COMUNICAZIONE


 

Bruno Cescon, Liturgia grande sistema di comunicazione. Il potere comunicativo della liturgia nella modernità (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – “Subsidia” 183), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2017. 231 pp.

 

Per la Chiesa, lo strumento di comunicazione per eccellenza, cioè di cultura e informazione interna ed esterna, è la liturgia. Attraverso il rito, un insieme di parole e gesti carichi di memoria e di valori teologici e simbolici, fa conoscere pensiero e azioni della Chiesa nella stessa modernità.

 

Osservata in termini sociologici, la liturgia assume i connotati di un particolare sistema comunicativo nel contesto della modernità. Non da ultimo, la liturgia traccia dei confini tra valori e non valori nella vita individuale e sociale. Comunica infatti mediante una forma “sapienziale” di trasmissione di informazione e di contagio di emozioni che oggi diventano, pur antiche, sempre nuove. La scienza della comunicazione aiuta a comprendere come la liturgia sappia trasmettere “buone notizie” e suscitare coinvolgimenti emotivi non sempre decifrabili in modo esaustivo.

 

La liturgia come comunicazione nella modernità è dunque la scommessa di questo volume. La sua efficacia non si ferma alla vita privata delle persone, ma influenza l’intera società, ispirando comportamenti individuali e sociali, che nei regimi sono invece tenuti sotto controllo perché espressione di libertà.

 

La liturgia è definita “potere comunicativo nella modernità”, in un momento in cui nell’Occidente cristiano subisce un indebolimento di comprensione e di partecipazione.

 

Il volume è diviso in due parti: la prima è uno studio accurato, e per  certi versi nuovo, sulla liturgia nella modernità; la seconda affronta il tema della liturgia come strumento comunicativo, in particolare nel nuovo ambiente dei media.

 


(Quarta di copertina)

venerdì 17 novembre 2017

DOMENICA XXXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 19 Novembre 2017


Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127 (128); 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

In una atmosfera piena di pace, di serenità e di felicità il Sal 127 celebra la vita piena dell’uomo giusto. Dio lo benedice nel suo lavoro, dandogli la possibilità di coglierne e di goderne i frutti. Il salmo inizia con le parole “Beato chi teme il Signore”, e termina con un augurio che si estende sull’intero popolo d’Israele: “Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita!”. In questa cornice, le letture bibliche odierne sono un forte richiamo ad una fede feconda; ci viene ricordato che le più sacrosante aspirazioni dell’uomo saranno appagate in pieno solo nella “città futura”, quando nell’intimità della casa del Padre la sposa dell’Agnello radunerà tutti i suoi figli “intorno alla sua mensa”. Raggiunge però questo traguardo colui che “cammina nelle vie del Signore”.

Alla fine ormai dell’anno liturgico, anche questa domenica è dominata dal pensiero delle ultime realtà, ma con una particolare sottolineatura: il rimando alla responsabilità personale nel presente come fatto decisivo in ordine al giudizio del futuro. L’uomo è libero di scegliere come spendere la propria esistenza terrena, ma solo chi segue fedelmente le vie indicate dal Signore raggiungerà un traguardo luminoso. La prima lettura fa l’elogio della donna perfetta, di cui si loda sia la sua integrità morale sia la sua capacità di gestire con fermezza, intelligenza ed amabilità la sua casa. La parabola dei talenti riportata dal vangelo si muove su una linea simile: i servi che hanno fatto fruttificare i talenti ricevuti sono lodali e premiati con generosità dal loro padrone. L’unico che sotterra il talento ricevuto viene castigato. Notiamo che un talento costituiva la paga di circa seimila giornate di lavoro. Anche al servo che ne viene affidato uno solo riceve quindi un capitale enorme.

Il nostro rapporto col futuro, precisato nella domenica scorsa come un “vegliare”, diventa oggi un “operare” nel concreto quotidiano, in base alle responsabilità avute. Non si tratta solo di attendere il ritorno di Cristo, ma di orientare la storia verso di lui. Dobbiamo vivere quindi non solo in un’attesa vigile ma anche fattiva. Il nostro futuro eterno è legato all’impegno nel quotidiano. Notiamo che il terzo servo di cui parla la parabola evangelica non viene punito perché ha fatto del male, ma perché non ha fatto del bene. Un dono, anche se piccolo, è pur sempre un dono: in quanto tale è un gesto di amore e di fiducia, a cui bisogna corrispondere con altrettanta generosità. Tutti abbiamo ricevuto dei doni; bisogna farli fruttificare. Alla fine della nostra vita ci incontreremo solo con ciò che avremo costruito, ma anche con tutto ciò che avremo avuto il coraggio di aspettarci da Dio. La venuta dell’ultimo giorno, del giorno del Signore, sarà un’amara sorpresa solo per chi avrà sistematicamente ignorato le proprie responsabilità e avrà chiuso il suo cuore alla speranza. Perché il Signore viene già ora, nella fedeltà agli impegni di ogni giorno. Nella seconda lettura, san Paolo ribadisce la stessa dottrina: conoscendo le ultime realtà a cui andiamo incontro, non possiamo comportarci come se non esistessero, ignorandole o adagiandoci in una passiva e inattiva attesa. Ciò che Dio ci chiede è ben poca cosa: la fedeltà alla sua grazia di ogni giorno nel compimento dei doveri quotidiani.

Possiamo ben dire che la santa eucaristia a cui partecipiamo costituisce la sintesi massima dei talenti datici da Dio. Perciò la partecipazione fruttuosa ad essa è pegno della gloria futura: ci ottiene la grazia di servire il Signore fedelmente e ci prepara il frutto di un’eternità beata (cf. orazione sulle offerte).


domenica 12 novembre 2017

IL PRIMATO DELL’AZIONE DI DIO NELLA LITURGIA



In un suo recente studio, il Prof. Paolo Tomatis afferma giustamente che non si dà atto di tradizione senza un processo di traduzione e di inculturazione. Si apre quindi l’interrogativo circa le “regole del gioco” da rispettare perché la traduzione non costituisca un tradimento della Tradizione, ma la sua concreta possibilità. In seguito, Tomatis dice che riascoltando le diverse voci dei Congressi di Assisi del 1956 e del 1986, emergeranno le principali tensioni entro cui tali regole saranno chiamate a precisarsi e attuarsi. Il recente Congresso di Assisi, celebrato nel 2016, non ha potuto non tener conto degli avvenimenti che hanno fortemente segnato una nuova fase della recezione della riforma e dei processi che reclamano una nuova tappa del rinnovamento liturgico. La novità più rumorosa può essere identificata nel movimento di “riforma della riforma” che ha raccolto istanze e sensibilità differenti. Alla fine di una breve esposizione al riguardo del pensiero di Joseph Ratzinger, Tomatis conclude con queste parole:

“… l’insistenza sul primato dell’azione di Dio rispetto all’azione della comunità è tanto pertinente quanto problematica, nella misura in cui rischia di separare l’azione di Cristo dall’azione del soggetto ecclesiale, ipostatizzando una data forma rituale come depositaria della qualità spirituale e sacramentale del rito cristiano. La doverosa sottolineatura del primato dell’orientazione spirituale sull’adattamento comunitario non può ‘tradursi’ in un rifiuto del compito della traduzione: semmai lo avverte dei possibili equivoci, che minacciano la singolare natura dell’esperienza liturgica”


Paolo Tomatis, La traduzione e la forma, in Andrea Grillo – Paolo Tomatis (edd.), Dove va il movimento liturgico? Atti della XLIV Settimana di Studio dell’Associazione di Professori di Liturgia, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2017, pp. 103-136 (qui p. 117).

venerdì 10 novembre 2017

DOMENICA XXXII ( A ) - 12 Novembre 2017



Sap 6,12-16; Sal 62; 1Ts 4,13-18; Mt 25,1-13

Il Sal 62 dà voce all’anima assetata del Signore. Un desiderio ardente sospinge il salmista, che ricerca Dio come il terreno palestinese arido, assetato, screpolato dalla calura attende l’acqua. Cercare Dio, aver sete di lui, significa che egli è già venuto a cercare noi e ha ridestato in noi, figli prodighi, la coscienza della nostra povertà e il bisogno di tornare alla sorgente della vita. Il salmo è un grido assetato di amore, che Dio stesso suscita nel profondo di ogni anima che lo cerca con cuore sincero, e che si stringe a lui sostenuta dalla forza della sua grazia.

L’anno liturgico volge ormai al termine. Le tre domeniche che lo chiudono orientano la nostra attenzione verso il traguardo delle “cose ultime” (i cosiddetti “novissimi”). Il tema odierno è la venuta gloriosa e definitiva del Signore alla fine dei tempi. In questo contesto, siamo invitati a vivere in attesa vigilante. La prima lettura parla della sapienza che si fa volentieri trovare da coloro che la cercano. Questo brano anticotestamentario si deve leggere in funzione del brano evangelico, che ci propone la parabola delle vergini stolte e sagge che sono in attesa dello sposo. Così come le vergini sagge erano pronte ad accogliere lo sposo e sono entrate con lui alla sala del banchetto di nozze, così l’uomo saggio è pronto ad accogliere il Signore quando egli verrà per entrare con lui nel regno del Padre. La sapienza di cui parla la Bibbia non è quindi una pura conoscenza intellettuale; è piuttosto quella capacità di trovare il giusto cammino nella vita. Il saggio è colui che sa leggere alla luce di Dio i fatti, le persone, i sentimenti, i segni il più delle volte ambigui o ambivalenti delle evenienze storiche; in questo modo, il vero saggio vive con consapevolezza la logica della tensione tra possesso e attesa, tra certezza e speranza. In altre parti del Vangelo l’incontro definitivo con il Signore è talvolta rappresentato come un giudizio. In questa parabola invece emerge un altro simbolo, quello delle nozze, proprio per sottolineare la dimensione dell’amore, della comunione di vita. Questo ci rivela come davanti a Dio non siamo passivi, ma chiamati a collaborare con lui per divenire artefici della nostra salvezza.

La vigilanza a cui ci esorta la parola di Dio oggi è un invito a pensare all’atteggiamento fondamentale della nostra vita, impegnata nel tempo ma senza mai perdere di vista l’eternità. Nella seconda lettura san Paolo si rivolge ai primi cristiani di Tessalonica che soffrono con angoscia per il distacco dai propri cari e s’interrogano sulla sorte dei defunti. L’apostolo ricorda a questi primi cristiani la fede nella morte e risurrezione del Cristo, quale premessa e fondamento della speranza in una vita ultraterrena. Nonostante la morte e al di là della morte, noi speriamo che la vicenda storica avrà una conclusione positiva. Non il vuoto ma l’incontro definitivo con il Cristo definisce la visione cristiana sulla conclusione della vicenda terrena.


Ogni celebrazione eucaristica di per sé è già partecipazione al banchetto celeste, realizzata però nel segno sacramentale, nell’attesa cioè della sua completa e definitiva manifestazione. Ecco perché noi cristiani preghiamo, soprattutto nella celebrazione eucaristica, per affrettare il ritorno di Cristo dicendogli: “Vieni, Signore” (1Cor 16,22; Ap 22,17-20). 

lunedì 6 novembre 2017

Il campanello alla consacrazione e la transustanziazione




Pubblicato il 6 novembre 2017 nel blog: Come se non

Come ho messo in  luce nel mio post precedente (sul tema delle “particole tonde”) dobbiamo riconoscere serenamente una certa tensione tra “teoria della transustanziazione” e “nuova celebrazione del rito eucaristico”. Da un certo punto di vista, quella teoria condiziona pesantemente la pratica rituale. D’altra parte, a sua volta, è stato un certo tipo di prassi ad aver preparato le condizioni per una teoria come quella della “conversione della sostanza, che lascia immutati gli accidenti”. In altri termini, una consistente parte della dottrina teologica dell’ultimo secolo si è resa conto che la “teologia della transustanziazione”, pur salvaguardando con grande precisione il “contenuto” della fede in un contesto polemico, non riesce a salvaguardarne la “forma” e determina un progressivo divorzio tra forma e contenuto, causando ricadute negative anche sul piano strettamente contenutistico.
La consacrazione senza contesto
Un esempio eloquente di questo fenomeno può essere identificato nella difficoltà con cui, gradualmente, tentiamo di recuperare la “unità della preghiera eucaristica”, uscendo da una fruizione “altamente selettiva” di tale preghiera. In realtà, osservando prima la pratica che la teoria, possiamo costatare che rimane un profondo “zoccolo duro” di quella che è stata, per secoli, una “partecipazione attiva” del popolo di Dio limitata alla “consacrazione”.
Mi spiego meglio. Per una lunga stagione, che risale almeno al Medioevo, la pressoché totalità di coloro che “partecipavano” alla Messa, era realmente presenti solo al momento della consacrazione. Tutto ciò che precedeva e tutto ciò che seguiva, nel processo rituale, era luogo di “devozioni parallele”. E la cosa era talmente evidente, che sulla soglia di ingresso e di uscita da questo “intenso luogo di culto comune” – ossia la consacrazione – un campanello era preposto a richiamare la attenzione iniziale e finale. Il primo campanello richiamava l’attenzione della assemblea verso l’atto comune, il secondo restituiva ognuno alle proprie devozioni personali.  Bisogna considerare con attenzione che questa “pratica” – che oggi non è scomparsa, anche se ha trasformato il “suono del campanello”, talora spostandolo anche in un momento diverso, ossia alla elevazione – è più di un “modo di fare”: è un “modo di pensare”, che identifica il punto esatto della “conversione della materia” e rischia di rendere tutto il resto “superfluo”.
Transustanziazione e carenza rituale
Alcune osservazioni sono qui necessarie:
a) Questa pratica ha trasformato il rito della eucaristia, identificandone il centro in un atto interno alla preghiera eucaristica e perdendo gradualmente il contesto orante che lo struttura;
b) La trasformazione del rito eucaristico ha sostituito con la “formula sulla materia” – ossia le parole della consacrazione su pane e vino – la sequenza “prex/ritus” che è costituita da “anafora eucaristica/rito di comunione”. In tal modo alla centralità della dinamica ampia tra preghiera/sacrificio/comunione si è sostituita la relazione stretta tra parole di consacrazione e materia eucaristica;
c) Questa trasformazione è risultata accentuata dalle polemiche sulla messa come “sacrificio/comunione”: avendo nettamente separato la dimensione di sacrificio da quella di comunione – in risposta alla netta separazione luterana della comunione dal sacrificio – abbiamo creato le premesse teoriche per questo isolamento della “consacrazione” non solo dalla “preghiera eucaristica”, ma anche dal “rito di comunione”
d) A tutto questo va aggiunto anche l’isolamento della consacrazione dalla “prima parte della messa” – dalla “parte didattica” come veniva chiamata – che solo recentemente abbiamo riscoperto come “comunione nella Parola proclamata, ascoltata e pregata”.
Tutto questo sviluppo, che risponde a molteplici ragioni e concause, ha trovato nel concetto di “transustanziazione” una potente forma di mediazione. Isolando la logica della sostanza dalla logica degli accidenti, ha potuto determinare – senza averne le intenzioni – tutte le nostre forme di “indifferenza per la forma rituale”, che hanno causato le derive formalistiche della nostra tradizione. Il richiamo che J. Ratzinger ha indicato, nel 1980, verso la “scoperta della forma rituale” come idea teologica fondamentale del Movimento Liturgico, chiarisce bene il senso di questa nuova esigenza di comprensione teorica della tradizione, per la quale i concetti classici non sono più sufficienti.
Le ragioni del Novus Ordo Missae
Ora dobbiamo chiederci: come possiamo restituire al rito eucaristico la sua ricchezza e la sua forza? La strada battuta dal Concilio Vaticano II risulta ancora assai promettente. Potremmo riassumerla in questi pochi punti qualificanti:
a) Ha indicato in 7 azioni qualificanti il percorso di aggiornamento della tradizione (maggiore ricchezza biblica, omelia, preghiera dei fedeli, uso delle lingue parlate, comunione sotto le due specie, unità tra parola e sacramento e concelebrazione);
b) Ha recuperato come criterio di fondo la “actuosa participatio”, che restituisce alla assemblea la qualità di “soggetto/oggetto” della azione rituale;
c) Ha avviato il processo di riforma dei riti, per riacquisire quelle sette ricchezze e per rendere possibile questa rinnovata forma di partecipazione, da cui dipende l’intera esperienza ecclesiale.
Ovviamente, se queste ragioni di novità vengono negate o minimizzate, non si percepiscono affatto le difficoltà cui conduce la “teoria della transustanziazione”: potremmo dire che i fautori del Vetus Ordo spesso si sentono spinti a pretendere una immediata identificazione tra presenza reale e transustanziazione. Viceversa la nuova ricchezza rituale, introdotta dalla Riforma Liturgica, aiuta il grande corpo della Chiesa a meglio esprimere ciò che essa pensa di sé, come disse Paolo VI aprendo la II sessione del Concilio Vaticano II. A fare esperienza della presenza del Signore in molti modi e in diversi linguaggi.
Partecipare senza campanello
Da tutto questo possiamo derivare una serie di conclusioni, per le quali occorre precisare anche teoricamente il contenuto della presenza del Signore, che definiamo “corpo di Cristo”.
a) Per questa esperienza non occorre alcun campanello. Non ha senso né suonarlo all’inizio della “consacrazione”, né spostarlo all’inizio della preghiera eucaristica: noi non possiamo separare né il racconto istituzionale dalla anafora, né la anafora dalla liturgia della parola, né la preghiera eucaristica dai riti di comunione. Il rito ha già le sue soglie rituali, ma la partecipazione si estende all’intero processo rituale, non  si concentra solo in una sua porzione;
b) Il campanello è l’indice di quello che giustamente Enrico Mazza ha definito “un rito nel rito”: senza perdere le diverse articolazioni del processo rituale, dobbiamo recuperare la percezione del “grande rito” costituito dalla sequenza “anafora/comunione”, al cui interno facciamo memoria delle parole del Signore sul pane e sul calice;
c) Il grande rito costituito dalla sequenza “anafora/comunione” comprende e annuncia che “corpo di Cristo” è la Chiesa per mediazione del corpo sacramentale; il piccolo rito della consacrazione rischia di fermarsi alla realtà intermedia del corpo sacramentale e di non far percepire la destinazione ecclesiale del rito eucaristico;
d) In questo processo di arricchimento della tradizione, la teoria teologica della “transustanziazione” rischia di svolgere – contro le proprie intenzioni – una funzione di immunizzazione dalla forma: se l’unica forma richiesta è quella delle “parole precise sul pane e sul vino”, allora è evidente quanto grande sia il rischio di distorsione della tradizione che, attraverso quella teoria, possiamo inavvertitamente generare.
Per concludere: transustanziazione è un termine che storicamente ha avuto la funzione di “salvaguardare un contenuto” in contesto polemico. Tale funzione deve oggi essere coniugata con una istanza diversa, ossia quella di recuperare le “forme più adeguate e più ricche” di quel contenuto. Per questo recupero la nozione di transustanziazione appare non solo come una antica ricchezza, ma anche come una nuova povertà.