Nicola
Bux, Con i sacramenti non si scherza,
Cantagalli, Siena 2016. 223 pp.
Tra
gli “intenti” del prof. Bux nello scrivere questo volume, c’è quello di
affrontare “il problema odierno nella Chiesa, il dissenso sulla natura della
liturgia” (p. 14). Già in queste parole si percepisce lo spirito di “crociata”
che anima le pagine del libro.
Mi
soffermo qui solo su alcune affermazioni dell’autore nell’ambito della celebrazione
eucaristica.
“Il
latino in quanto lingua ‘sacra’ ha una potenza comunicativa, in quanto è
adoperata all’interno di un atto sacro…” (p. 42). Se la sacralità del latino
dipende dal fatto che è adoperata all’interno di un atto sacro, ciò sarebbe valido
anche per qualsiasi altra lingua adoperata all’interno di un atto sacro. La
Costituzione Sacrosanctum Concilium
non parla del latino come lingua “sacra”. Nella stessa pagina l’autore parla di
un fraintendimento della participatio
actuosa da parte dei fautori delle lingue parlate. Noto però che la
partecipazione passa attraverso il segno e quindi anche attraverso la lingua
adoperata. Ricordo inoltre che la Costituzione liturgica vuole che i riti
(parole e gesti) “siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli”. Mi
sembra quindi fuori posto l’affermazione del Bux in questa stessa pagina quando
dice: “Bisogna interrogarsi seriamente circa la disobbedienza verso il concilio
ecumenico Vaticano II”.
Dopo
aver affermato giustamente che tra il sacerdozio battesimale e quello
ministeriale vi è distinzione di essenza e non solo di grado, l’autore dice:
“infatti i fedeli partecipano attivamente alla celebrazione eucaristica ma non
la celebrano” (p. 87). Basterebbe citare il Catechismo
della Chiesa Cattolica per capire la falsità di questo ragionamento:
“L’assemblea che celebra è la comunità dei battezzati” (CCC n. 1141). Questa
affermazione non annulla la mediazione necessaria del sacerdozio ministeriale. Un’assemblea
eucaristica esiste solo se presieduta da
un ministro ordinato, vescovo o presbitero.
Sul
rapporto sacrificio/banchetto nell’Eucaristia, l’autore afferma: “Se nel ‘600
la messa veniva vista più come adorazione che come rendimento di grazie per il
sacrificio di Cristo, oggi siamo in presenza di un altro eccesso: la messa
vista unicamente come banchetto, non anche come sacrificio” (pp. 105-106). Questo
“unicamente” dovrebbe essere documentato; non è riscontrabile né nei libri
liturgici del dopo Vaticano II né nei trattati di teologia pubblicati in questi
anni. La sottolineatura della dimensione conviviale dell’Eucaristia non solo
non cancella quella sacrificale, ma aiuta a capire quest’ultima nella sua vera
ricchezza.
“Bisognerebbe
rimettere il tabernacolo al centro, perché le persone siano aiutate a
comprendere che la chiesa è il luogo della presenza del Signore, non un aula da
usare solo quando ci si raduna per la liturgia…” (p. 106). Come la mettiamo con
le grandi basiliche romane? Non ha anche un senso creare uno spazio ad hoc (dove
ciò sia possibile), per la conservazione del Ss.mo Sacramento? In molte chiese
costruite in questi anni c’è la cosiddetta cappella feriale, uno spazio adatto
per questo scopo.
Vi
sono altre prese di posizione del prof. Bux, che meriterebbero qualche
precisazione, come l’accanimento che egli dimostra, al seguito di A. Schneider,
contro la comunione ricevuta sulla mano… (pp. 99-101), un uso documentato fino al secolo IX! Ma mi fermo qui. Mi
sembra che affrontare in questo modo gli abusi nell’ambito della celebrazione
liturgica impoverisce la concezione stessa della liturgia riformata dopo il
Vaticano II. Certamente gli abusi vanno combattuti, ma non a scapito degli usi.
Le “novità” introdotte dalla riforma di Paolo VI vanno accolte, spiegate se
necessario, ma non combattute. Non si
butta il bambino insieme con l’acqua sporca.
m.
a.