Il dio della scienza
Perché gli studiosi non possono
ignorare i miracoli. Parla il fisico Robert Kurland: “Ve lo dimostriamo”
di Matteo Matzuzzi | 18 Luglio 2016 ore 12:54
La prima caratteristica di un
miracolo è che esso si relaziona alla fede in Dio. E’ un atto o un segno che
proviene da Dio. I miracoli sono ritenuti essere eventi rari, soprannaturali,
non legati alla legge naturale. Certo, non tutti gli eventi rari sono miracoli.
Vincere la lotteria è un evento raro, ma non un miracolo. Ma i miracoli
esistono”. Robert Kurland è un fisico, ha lavorato nel dipartimento di Chimica
di quello che un tempo era il Carnegie Institute of Technology, poi è passato
alla State University di New York a Buffalo, al Roswell Cancer Institute, alla
Cleveland Clinic, alla Bucknell University. Studi ad Harvard, è tra i massimi
esperti mondiali di materia e anti materia (si digiti “equazione
Kurland-McGarvey” su Google o su qualunque altro motore di ricerca per farsene
un’idea). Eppure, lui ai miracoli ci crede. E’ convinto, dice al Foglio, che
una forza superiore e soprannaturale, invisibile ed eterna, governi il mondo.
Alla questione dedica pure un ebook di prossima uscita, “No War between Science
and the Church – Truth cannot contradict Truth” (Nessuna guerra tra la chiesa e
la scienza – la verità non può contraddire la verità”.
ARTICOLI CORRELATI Così la fisica spiega l’inspiegabile origine
dell’universo Il Dio del Big Bang Il miracolo è la speranza che si avvera.
Anche questa è Pasqua “Se non credessi nei miracoli, dovrei
sostenere che la scienza può spiegare tutto. E io non credo sia così. Dovrei
ritenere che il naturalismo (o materialismo o scientismo che dir si voglia) sia
l’unica spiegazione per ogni cosa e processo. In altre parole, dovrei accettare
che le cosiddette leggi di natura siano nient’altro che leggi prescrittive,
anziché tentativi descrittivi di fornire un ‘quadro matematico’ del nostro
mondo”, spiega Kurland. Bisogna uscire dagli schemi, da un’impostazione troppo
rigida e non cedere alla tentazione di soddisfare empiricamente ogni umana
necessità, come quella di pretendere che anche l’ignoto diventi in qualche modo
evidente o addirittura lapalissiano: “Uno che crede nell’onnipotenza e onniscenza
divina potrebbe domandarsi perché Dio non si metta a creare in natura qualcosa
che noi – sempre secondo i nostri schemi – riterremmo essere un miracolo. La
risposta è sempre la medesima, e cioè che le cosiddette leggi di natura sono
descrittive e non prescrittive. Dio non può fare in modo che due più due faccia
cinque. Però può curvare lo spazio, cosicché la somma degli angoli interiori di
un triangolo non sia di centottanta gradi. In altri termini, Dio può rendere
possibile ciò che è logico ma allo stesso tempo difficile. Non può rendere
possibile, invece, ciò che sul piano logico è impossibile”.
Questioni difficili, anche per un
fisico come lui. E ancora più difficili da spiegare a giovani studenti sempre
più diffidenti riguardo le questioni di fede: “Penso che una strada per rendere
più facile spiegare ai ragazzi questo tema sia quella di insegnare di più la
storia della scienza, di mostrare che il suo progresso non è stato un percorso
lineare, ma pieno di deviazioni e scossoni. E di mostrare che la chiesa è stata
la levatrice della scienza, che è nata con la civiltà europea e non altrove”.
Domande che hanno prodotto un travaglio interiore nel percorso di fede anche
allo scienziato Kurland: “Più o meno vent’anni fa, quando mi stavo preparando a
entrare a far parte della chiesa cattolica, ero molto turbato dal fenomeno
eucaristico, dalla transustanziazione. Come fisico, non potevo accettare che un’ostia
potesse diventare il corpo di Cristo e del vino il suo sacro sangue. Allora,
l’anziano e saggio prete che mi stava preparando mi domandò se credessi nel
miracolo della resurrezione di Cristo. ‘Certo’, risposi: ‘E’ questo il motivo
per il quale sto per diventare cattolico’. A quel punto lui mi rispose: ‘Bene,
se credi in un miracolo, perché non in un secondo o in altri ancora?’. Quella
risposta mi ha reso tutto più semplice e più chiaro”.
Si torna al punto di partenza, e
cioè l’umana e comprensibile convinzione che solo la scienza possa rassicurare
e spiegare ciò che in realtà facilmente spiegabile non è. “La scienza non può
però rispondere alla domanda essere o non essere”, ribatte Kurland citando una
celebre massima di padre Stanley Jaki, il filosofo teologo e fisico ungherese
benedettino che dedicò la vita allo studio del rapporto tra la scienza e la
religione, tanto da insegnarlo perfino dalle auguste cattedre di Princeton. “La
scienza – osserva il nostro interlocutore – in fin dei conti può solo rispondere
sul come accadono certe cose. Non sul perché. Per dare una risposta al perché
dobbiamo spostarci sul piano della fede: il nostro scopo su questa terra, che
cosa accadrà quando moriremo. Sono tutte domande che trovano risposta nel
catechismo cattolico. La scienza non può rispondere alle domande sull’etica e
la bellezza, ad esempio. Anche nella scienza, insomma, ci sono misteri,
profondità che potrebbero rimanere inesplorate. Come ha sottolineato il celebre
fisico e filosofo francese Bernard d’Espagnat, c’è una ‘realtà velata’ che
sottende quel fondamentale settore della scienza, la meccanica quantistica”.
Eppure, il rapporto tra la fede e la
scienza è sempre stato tormentato, quasi si trattasse di due rette parallele
che corrono vicine, verso l’infinito, ma che mai s’incontrano. Coesistono o no?
“Ribaltiamo la domanda – dice Bob Kurland – come possono la fede e la scienza
non coesistere? Ogni scienziato ha fede nel fatto che il suo lavoro sia basato
su un universo fondamentalmente ordinato, con leggi uniformi che nella maggior
parte dei casi possono essere espresse matematicamente”. Lo diceva anche
Giovanni Paolo II, del resto: “Gli scienziati, come tutti gli esseri umani,
dovranno prendere decisioni su ciò che in definitiva dà senso e valore alla loro
vita e al loro lavoro; faranno questo bene o male, con quella profondità di
riflessione che si acquista con l’aiuto della sapienza teologica, o con una
sconsiderata assolutizzazione delle loro conquiste al di là dei loro giusti e
ragionevoli limiti”. Kurland riconosce che “la scienza sviluppatasi nei secoli
del Medioevo non gode più di troppi riconoscimenti, benché abbia fondamenti
veri. La fede della Scolastica medievale afferma che Dio creò un mondo
meraviglioso e ci diede l’intelligenza di comprendere ed esultare per le sue
opere”. Dopotutto, fa notare il nostro interlocutore, lo dice anche il Salmo
19: “I cieli raccontano la gloria di Dio”.
E’ un rapporto vivo, quello tra
scienza e fede, che gode di ottima salute, insomma. L’importante, ancora una volta,
è usare elasticità mentale, lasciar perdere la rigidità con la quale si
considera l’ordine delle cose. Una relazione che Giovanni Paolo II aveva
spiegato in poche ma efficaci parole, nella lettera inviata trent’anni fa
all’allora direttore della Specola vaticana, padre George Coyne: “La scienza
può purificare la religione dall’errore e dalla superstizione; la religione può
purificare la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti. Ciascuna può aiutare
l’altra a entrare in un mondo più ampio, un mondo in cui possono prosperare
entrambe”. Parole che Robert Russel, fondatore e direttore del Center for
Theology and The Natural Sciences di Berkeley, definiva “rivoluzionarie”. Karol
Wojtyla, aggiungeva Russel, “invece che appellarsi a una strategia ad hoc per
l’introduzione di scoperte scientifiche nell’orizzonte intellettuale della
chiesa, il Papa vuole collocare questo processo all’interno di un opportuno
metodo teologico. Questo metodo, fides quaerens intellectum (la fede che cerca
di comprendere), richiede che le teorie scientifiche dimostrate vengano
incorporate in teologia impiegandole per illuminare alcuni contenuti della fede
cristiana”.
Una linea diametralmente opposta da
quella, asettica e asciutta, dell’eminente biologo John Burdon Sanderson Haldane,
che era solito dire: “Sono scienziato, quindi ateo. Questo significa che quando
realizzo un esperimento, prevedo che nessun dio, angelo o diavolo interferisca
con quanto mi accingo a fare”. Sei anni fa ci fu una dotta battaglia a colpi di
articoli sulla stampa americana relativa al connubio tra scienza e fede. Iniziò
sul Wall Street Journal il fisico Lawrence Krauss, che sposava appieno le tesi
di Haldane, sostenendo che i miracoli hanno in qualche modo a che fare con la
magia e l’irrazionale, e di conseguenza credere in Dio è in opposizione a un
mondo rivelato dalla scienza, un mondo intelligibile dalla ragione e governato
dalla legge. A rispondere, sulla rivista cattolica conservatrice First Things,
c’aveva pensato un altro fisico, Stephen M. Barr: “Non c’è alcuna
contraddizione logica nel credere sia nelle leggi naturali sia nei miracoli”.
Non vi è “alcuna contraddizione storica tra le due idee”, aggiungeva Barr,
“come dimostra il fatto che molte delle leggi fondamentali della fisica sono
state scoperte e prendono il nome da uomini che nei miracoli hanno creduto.
Sarebbe senza dubbio un grande sorpresa, per Kraus, apprendere che tanti fisici
nel campo della fisica delle particelle e della cosmologia sono devoti
cristiani che credono nei miracoli”.
E ce ne sono pure di atei che ci
credono, come la professoressa Jacalyn Duffin, canadese, storica della medicina
e già presidente dell’American association for the History of Medicine e della
Canadian Society for the History of Medicine. Trent’anni fa, le capitò di
guardare al microscopio del midollo osseo malato, attaccato dalla leucemia. Una
situazione disperata, la prognosi non poteva che essere infausta. Il verdetto,
suo, era chiaro: morte certa. Sette anni dopo, ancora per caso, scoprì che quel
midollo apparteneva a una persona che era sopravvissuta al male e che il caso
era passato al vaglio del Vaticano: c’era una causa di canonizzazione (la beata
Marie-Marguerite d’Youville) in ballo, e la sua analisi di quel midollo osseo
era servita per portare agli altari la religiosa canadese vissuta nel
Settecento. La commissione di Roma era scettica, e una prima perizia aveva
escluso interventi soprannaturali. Per sbloccare la causa, serviva il parere di
un esperto terzo. Fu scelta la professoressa Duffin, che esaminò il reperto
rigorosamente anonimo. Impossibile che quel materiale organico appartenesse a
una persona viva, scrisse la scienziata. Oggi, a più di tre decenni da quella
vicenda, Duffin allarga le braccia: “Non so spiegarmi come quella paziente sia
ancora viva. Anche se sono ancora atea, credo ai miracoli. Eventi straordinari
che accadono e per i quali non vi sono spiegazioni scientifiche”. Atei o no,
Robert Kurland ci tiene a sottolineare – per averli studiati – che i
processi della chiesa cattolica sul punto sono tra i più rigorosi che abbia
visto nella sua vita: la chiesa tutto vuole meno di mostrarsi superficiale
riguardo guarigioni improvvise e canonizzazioni affrettate.
Insomma, dire che Dio non esiste
perché non interviene negli esperimenti di laboratorio, come sosteneva sicuro
di sé e dei propri mezzi empirici Haldane, ricorda molto “l’annuncio trionfale
di Krusciov secondo il quale gli astronauti non avevano visto Dio” nelle loro
peregrinazioni ultraterrene. Basterebbe tenere presente quanto sosteneva il
matematico Hermann Weyl, che spostando l’occhio da microscopio a microscopio,
non poteva fare altro che constatare che Hermann Weyl: “Questa armonia perfetta
è conforme a una ragione sublime”.
Fonte: Il Foglio (19.07.2016)