Si può dire che la liturgia usa prevalentemente il noi non perché esclude l’io o
vi si contrappone, ma perché lo include. Anzi, nei momenti centrali e
culminanti dei sacramenti o della professione della fede fa appello
esplicitamente all’io (o al tu) e, insieme, lo inserisce in un
contesto intersoggettivo in cui ritrova la sua dimensione più propria. Questo è
ciò che il linguaggio codificato della liturgia prefigura. In esso il soggetto
peronale prende posto e si insedia assumendo e consentendo a ciò che il rito
predispone. L’esperienza che l’interazione rituale intende promuovere divent
anche la sua personale esperienza, nel momento in cui con il proprio “Amen” si
insedia nel posto relazionale che gli è assegnato e che lo accomuna agli altri
celebranti.
Rimane però anche un altro modo dell’io
di appropriarsi dell’esperienza liturgica, testimoniato più fortemente e
oggi in modo rilevante nel linguaggio di libera creazione: qui è l’io che si auto-pone, per introdurre nel
rito qualcosa della sua esperienza, del suo mondo, qualcosa che gli permetta di
personalizzare l’azione liturgica e di riconoscersi in ciò che fa.
Si tratta di due strategie diverse, in parte dialettiche, tanto
necessarie quanto limitative se vissute in modo unilaterale e distorto: si può
rischiare il formalismo di un linguaggio asettico, freddo, non caratterizzato e
non caratterizzante; ovvero l’intimismo o la deriva verso un linguaggio
privato, troppo autoreferenziale.
Il fatto che oggi si patisca molto la fatica di appropriarsi del
linguaggio codificato della liturgia, e si scivoli più facilmente verso
caratterizzazioni personali del linguaggio, fa pensare che la strategia del
libro liturgico non sia sempre efficace, o che per lo meno non lo sia
facilmente nel contesto attuale. Non sarà vano un lavoro formativo che aiuti i
fedeli a cogliere questa funzione propria del linguaggio rituale e a “sentire”
la sua capacità e la sua forza in ordine a promuovere una determinata
esperienza di vita cristiana. D’altra parte, può far riflettere il fatto che la
pietà popolare, nella quale sarebbe prevalente la forma delle preghiere “io”
rispetto alle preghiere “noi”, abbia in realtà molte altre strategie (legate a
contesti e a linguaggi non verbali) con cui il coinvolgimento personale non
rimane necessariamente individuale, ma si incontra nella condizione di comuni
percorsi. Il modo stesso di celebrare la liturgia potrebbe giovarsi di questo
confronto con la religiosità popolare.
Forse anche per la liturgia non è sufficiente ribadire il suo valore di
ecclesialità, né predisporre un linguaggio che in qualche modo lo preveda e lo
manifesti. Occorre in ogni caso prendere maggiormente in considerazione l’esigenza
di inserimento dell’io nell’interazione
celebrativa, valorizzando quelle strategie di coinvolgimento che il linguaggio
(sia verbale sia non verbale) è in grado di fornire e che rispondono a tale
esigenza della fede. E ciò, proprio perché sia più vero e autentico il porsi
del soggetto ecclesiale della celebrazione.
Fonte: Luigi Girardi, “Il soggetto individuale nel
linguaggio liturgico attuale”, in R. Tagliaferri – A. Terrin (edd.), La pastoralità e la questione dell’individuo
nella liturgia, Centro Liturgico Vincenziano, Roma – Abbazia di Santa
Giustina, Padova 2016, 236-238.