Is 8,23b-9,3; Sal 26 (27); 1Cor 1,10-13.17; Mt 4,12-23
Il
salmo responsoriale esprime una sconfinata fiducia nel Signore. La tradizione
dei primi secoli ha fatto recitare questa preghiera ai neo-battezzati. Nel
battesimo infatti siamo stati “illuminati” dalla luce che è Cristo, e siamo
quindi passati dalle tenebre del peccato alla luce della grazia. Lo dice san
Paolo quando ricorda ai cristiani di Efeso: “Un tempo infatti eravate tenebra,
ora siete luce nel Signore” (Ef 5,8). Perciò possiamo cantare: “Il Signore è
mia luce e mia salvezza”.
Il
simbolismo della luce, che abbiamo già trovato nella domenica precedente nonché
nella liturgia natalizia e ritroveremo in quella pasquale, esprime, nella
Bibbia, la realtà della salvezza donata dal Signore per mezzo di Cristo. San
Matteo, nel brano evangelico d’oggi, racconta gli inizi del ministero pubblico
di Gesù che comincia dalla Galilea, dopo l’arresto di Giovanni. Gesù sceglie
come punto di partenza della sua predicazione una regione religiosamente
sottosviluppata, dove la religione d’Israele era a stretto contatto col
paganesimo. Nel secolo VIII a. C. gli abitanti di Galilea erano stati deportati
in esilio, “immersi nelle tenebre della schiavitù”. Ricordiamo che uno degli
argomenti che verranno portati contro la messianicità di Gesù è appunto questo:
“Il Cristo viene forse dalla Galilea?” (Gv 7,41). In questa scelta fatta da
Gesù per iniziare l’annuncio del Regno di Dio e l’invito alla conversione,
l’evangelista Matteo vede il compimento delle parole del profeta Isaia, che
abbiamo ascoltato nella prima lettura: “...il popolo che cammina nelle tenebre
ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce
rifulse”. La Galilea, terra di tenebra da dove la predicazione di Gesù inizia a
irradiarsi come luce, è il simbolo del buio che avvolge la vita dell’uomo che
non è stato illuminato dalla luce del Vangelo di Gesù.
La
lieta novella che Gesù reca all’uomo è un messaggio di liberazione morale e
fisica, perché rinnova l’uomo. Gesù predica il vangelo del Regno e guarisce
ogni malattia e infermità mettendo l’uomo in grado di individuare e percorrere
la strada che lo può realizzare, che è capace di dare senso alla propria vita,
come i fratelli Simone e Andrea e Giacomo e Giovanni che, lasciata ogni cosa,
seguono Gesù e trovano in lui il senso della loro esistenza. San Matteo
sottolinea che i primi discepoli sono fratelli nel sangue per indicare
l’effetto della conversione che conduce oltre, verso la fraternità in Cristo,
la sola capace di non divenire mai esclusiva, ma comprensiva di ogni uomo.
Convertirsi al Regno di Dio significa quindi scoprire anche i profondi rapporti
che ci uniscono gli uni gli altri. Fare di Cristo il centro della vita vuol
dire spezzare ogni barriera e ogni divisione. Perciò nella comunità di coloro
che sono stati illuminati dal Vangelo di Gesù non hanno senso le discordie, le
divisioni. E’ quanto ricorda san Paolo nella seconda lettura quando esorta i
fratelli della comunità di Corinto ad essere “in perfetta unione di pensiero e
di sentire”. Se Cristo non può essere diviso, nemmeno la comunità di Cristo,
che è vero “corpo di Cristo”, può essere divisa. Le divisioni nella Chiesa sono
lacerazioni di Cristo.
Riassumendo,
possiamo affermare che negli inizi della sua predicazione Gesù annuncia la liberazione
dall’oppressione in cui si trovano gli uomini che vivono nelle tenebre e nella
schiavitù del peccato, perché essi, “illuminati” dalla luce che è Cristo,
possano ritrovare il senso della loro esistenza nella comunione e solidarietà
reciproca. Questo messaggio trova una sua realizzazione vera e paradigmatica
nella partecipazione all’eucaristia, in cui per opera dello Spirito “diventiamo
in Cristo un solo corpo e un solo spirito” (preghiera eucaristica III).