Dietro la venerazione delle icone c’è la fede ortodossa, quella della
Chiesa di Costantinopoli, la “Grande Chiesa di Cristo”. È la fede del Settimo
Concilio ecumenico, che si svolse a Nicea nel 787, nel quadro di una Chiesa
indivisa, non ancora lacerata dallo scisma tra Occidente e Oriente. Il Settimo
Concilio segna la vittoria sugli iconoclasti. Si condannava l’iconoclasmo come
eresia, anzi come somma delle eresie. Il culto dell’icona si colloca nella
logica dell’incarnazione. L’incarnazione stessa postula l’icona. L’iconoclasmo
rimanda invece ad un Dio disincarnato. Alla “sola Parola” dell’Antico
Testamento succede una nuova “economia”, quella di Cristo e dei Vangeli. È
l’economia dell’incarnazione, in cui è compresa la visione. L’icona per
eccellenza è Cristo stesso, a cui rimandano tutte le icone dipinte.
Questo insegnano Giovanni Damasceno, Teodoro lo Studita e il patriarca
Niceforo, tra la seconda metà del VII e il IX secolo. Una festa liturgica,
quella della Domenica dell’Ortodossia, ricorda al popolo credente come il
ristabilimento delle immagini sia stato un fatto importante nella storia della
Chiesa. Si tratta della prima Domenica di Quaresima, in cui ai Vespri si canta:
“Quanti dall’impietà siamo passati alla pietà e siamo stati illuminati
dalla luce della conoscenza battiamo le mani […] offrendo a Dio una lode grata;
e veneriamo con onore le sacre icone del Cristo, della Tutta Pura e di tutti i
santi, poste alle pareti, su tavole e su sacri arredi, respingendo la religione
empia dei non ortodossi. L’onore dato alle icone, infatti, è rivolto al
prototipo, come dice Basilio…”
Fonte: Andrea Riccardi, La Preghiera, la Parola, il Volto, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2019, pp. 152-153.