Le due prospettive non possono
diventare alternative, ma chiedono una integrazione reciproca. Di fatto, dalla
prassi pastorale risultano entrambe necessarie, anche se bisognerebbe sempre
tener ben presente che è il celebrare secondo la forma rituale e le sue
esigenze che “forma” il credente e la comunità dei credenti. Non si può formare
alla celebrazione se non facendola sperimentare, facendola vivere dall’interno.
Anche perché il rito, e di conseguenza la liturgia, non esiste al di fuori
dalla celebrazione celebrata, cioè dalla sua messa in atto – “messa in scena”.
Ma tale processo di
“formazione” della comunità può avvenire solo se si è introdotti a questo
celebrare, a questa forma di vita che è il rito, se si diventa “competenti”
rispetto a ciò che il rito richiede per essere sperimentato. Si tratta infatti
di una partecipazione secondo la forma rituale, la quale è composta di sequenze
di azioni simboliche da ripetersi, prescritte/ricevute da una tradizione, da un
contesto che supera i singoli, frutto di una dinamica intersoggettiva che si
estende nel tempo e nello spazio.
(Bruno Baratto, “Come educare
alle competenze rituali? Una provocazione per le comunità celebranti, nell’oggi
e nel qui”, in Roberto Tagliaferri (ed.), Competenza rituale. La “messa in
scena” della fede come ars celebrandi, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma –
Abbazia di Santa Giustina, Padova 2020, 151-183, qui p. 154. Le note non sono
riportate).