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domenica 10 gennaio 2021

NON CI “INDURRE” IN TENTAZIONE?

 



 

In questo blog mi sono occupato della traduzione di questa invocazione del Padre nostro: il 15 aprile 2018 “Non metterci alla prova”; il 1 marzo 2020 “Non abbandonarci alla tentazione?”. Oggi propongo un testo del Card. Gianfranco Ravasi sullo stesso argomento.

 

Per una corretta comprensione della formula originaria biblica bisogna badare al sottofondo semitico e biblico. L’italiano “indurre”, ricalcato sul latino inducas, effettivamente è eccessivo rispetto al greco (eisenénkês) che indica un “non portarci verso, non farci entrare”, diverso dall’ “indurre” che è uno “spingere” qualcuno a compiere un’azione. Il senso genuino è, allora, quello di non essere esposti e abbandonati al rischio della tentazione. Ora, è necessario distinguere tra “tentazione-prova” e “tentazione-insidia”. La prima può avere come soggetto Dio che vaglia la fedeltà e la purezza della fede dell’uomo: pensiamo ad Abramo, invitato a sacrificare Isacco, il figlio della promessa divina (Gen 22), a Giobbe, a Israele duramente “corretto” da Dio nel deserto “come un uomo corregge un figlio” (Dt 8,5). È un’educazione alla fedeltà, alla donazione disinteressata, all’amore puro e senza doppi fini. Se si accoglie questo significato, si potrebbe tradurre l’invocazione così: “Non introdurci nella prova”. Diversa è la tentazione-insidia che mira alla ribellione dell’uomo nei confronti di Dio e della sua legge e che, a prima vista dovrebbe avere come radice Satana e il mondo peccatore.

Ebbene, se è facile comprendere la prima applicazione (si chiede a Dio di non provarci troppo aspramente e di non lasciarci soccombere in quel momento oscuro), è più complesso spiegare la seconda applicazione che rimane sottesa alla versione della Conferenza Episcopale Italiana. Sì, perché per la Bibbia anche Dio può paradossalmente “tentare” al male. Lo si legge, per esempio, nel Secondo Libro di Samuele: “Dio incitò Davide a fare il male attraverso il censimento di Israele” (24,1). La domanda del Padre Nostro potrebbe, perciò, avere anche questa sfumatura. Ma come spiegarla? La risposta è nella mentalità semitica: essa per evitare di introdurre il dualismo di fronte al bene e al male, cioè l’esistenza di due divinità, l’una buona e l’altra malvagia, cerca di porre tutto sotto il controllo dell’unico Dio, bene e male, grazia e tentazione.

In Isaia il Signore non esita a dichiarare: “Sono io che forma la luce e creo le tenebre, faccio il bene e causo il male: io, il Signore compio tutto questo” (45,7). In realtà si sa che il male dev’essere ricondotto o alla libertà umana o al tentatore per eccellenza, Satana. Non per nulla la frase sopra citata, presente nel Secondo Libro di Samuele e riguardante Davide, nella storia parallela del libro delle Cronache viene corretta e suona così: “Satana spinse Davide a censire gli Israeliti” (I, 21,1). Concludendo, quando si prega il Padre divino di “non abbandonarci alla tentazione” si vuole, allora, certo domandargli di non provarci con durezza, ma anche di non lasciarci catturare dalle reti del male, di non permettere che entriamo nel cerchio magico e affascinante del peccato, di non esporci alla prova e all’insidia. In questa invocazione sono coinvolti temi capitali come la libertà e la grazia, la fedeltà e il peccato, il dolore e la speranza, il bene e il male.

 

Fonte: Gianfranco Ravasi, nell’Introduzione al libro di Jean Carmignac, Ascoltiamo il Padre Nostro, Edizioni Ares, Milano 2020, pp. 21-23.