In questo blog mi sono occupato
della traduzione di questa invocazione del Padre nostro: il 15 aprile
2018 “Non metterci alla prova”; il 1 marzo 2020 “Non abbandonarci alla
tentazione?”. Oggi propongo un testo del Card. Gianfranco Ravasi sullo stesso
argomento.
Per una corretta comprensione
della formula originaria biblica bisogna badare al sottofondo semitico e
biblico. L’italiano “indurre”, ricalcato sul latino inducas,
effettivamente è eccessivo rispetto al greco (eisenénkês) che indica un
“non portarci verso, non farci entrare”, diverso dall’ “indurre” che è uno
“spingere” qualcuno a compiere un’azione. Il senso genuino è, allora, quello di
non essere esposti e abbandonati al rischio della tentazione. Ora, è necessario
distinguere tra “tentazione-prova” e “tentazione-insidia”. La prima può avere
come soggetto Dio che vaglia la fedeltà e la purezza della fede dell’uomo:
pensiamo ad Abramo, invitato a sacrificare Isacco, il figlio della promessa
divina (Gen 22), a Giobbe, a Israele duramente “corretto” da Dio nel deserto
“come un uomo corregge un figlio” (Dt 8,5). È un’educazione alla fedeltà, alla
donazione disinteressata, all’amore puro e senza doppi fini. Se si accoglie
questo significato, si potrebbe tradurre l’invocazione così: “Non introdurci
nella prova”. Diversa è la tentazione-insidia che mira alla ribellione
dell’uomo nei confronti di Dio e della sua legge e che, a prima vista dovrebbe
avere come radice Satana e il mondo peccatore.
Ebbene, se è facile
comprendere la prima applicazione (si chiede a Dio di non provarci troppo
aspramente e di non lasciarci soccombere in quel momento oscuro), è più
complesso spiegare la seconda applicazione che rimane sottesa alla versione
della Conferenza Episcopale Italiana. Sì, perché per la Bibbia anche Dio può
paradossalmente “tentare” al male. Lo si legge, per esempio, nel Secondo
Libro di Samuele: “Dio incitò Davide a fare il male attraverso il
censimento di Israele” (24,1). La domanda del Padre Nostro potrebbe,
perciò, avere anche questa sfumatura. Ma come spiegarla? La risposta è nella
mentalità semitica: essa per evitare di introdurre il dualismo di fronte al
bene e al male, cioè l’esistenza di due divinità, l’una buona e l’altra
malvagia, cerca di porre tutto sotto il controllo dell’unico Dio, bene e male,
grazia e tentazione.
In Isaia il Signore non
esita a dichiarare: “Sono io che forma la luce e creo le tenebre, faccio il
bene e causo il male: io, il Signore compio tutto questo” (45,7). In realtà si
sa che il male dev’essere ricondotto o alla libertà umana o al tentatore per
eccellenza, Satana. Non per nulla la frase sopra citata, presente nel Secondo
Libro di Samuele e riguardante Davide, nella storia parallela del libro
delle Cronache viene corretta e suona così: “Satana spinse Davide a
censire gli Israeliti” (I, 21,1). Concludendo, quando si prega il Padre divino
di “non abbandonarci alla tentazione” si vuole, allora, certo domandargli di
non provarci con durezza, ma anche di non lasciarci catturare dalle reti del
male, di non permettere che entriamo nel cerchio magico e affascinante del
peccato, di non esporci alla prova e all’insidia. In questa invocazione sono
coinvolti temi capitali come la libertà e la grazia, la fedeltà e il peccato,
il dolore e la speranza, il bene e il male.
Fonte: Gianfranco Ravasi,
nell’Introduzione al libro di Jean Carmignac, Ascoltiamo il Padre Nostro,
Edizioni Ares, Milano 2020, pp. 21-23.