Nella
lingua latina del mondo antico esistono tre termini per indicare questo luogo
centrale del tempio o nell'area sacra della divinità: ara, altare, mensa. Il
primo termine è il più frequente, il secondo è usato raramente, mentre l'ultimo
indica il tavolo su cui si deponevano le offerte sacrificali oppure, nel
linguaggio quotidiano, si consumava il pasto familiare.
Il
vocabolo altare, utilizzato poi nel culto cristiano, è composto da
un aggettivo, o participio, e da un nome: alta – ara. La prima parte del termine potrebbe derivare sia
dall'aggettivo latino altus/ta/um, ovvero “alto”, sia del participio del verbo álere, cioè “nutrire”: perciò può indicare una struttura alta o che sta in
alto oppure che è destinata alla funzione della nutrizione. La seconda parte
troverebbe la sua etimologia nel verbo arére: ardere, bruciare, quindi come “luogo del fuoco”. La
natura fondamentale di ogni altare o ara nel mondo precristiano, quindi, era
quella di essere una struttura elevata, normalmente di pietra, sulla quale
deporre e bruciare le offerte destinate o sacrificate alla divinità, perché
fossero da essa accolte e consumate. La funzione pratica dell'altare non era
quella dell'immolazione cruenta delle vittime sacrificali, la cui uccisione
veniva compiuta in altro luogo, ma quella di accogliere le offerte e permettere
la loro combustione, quale manducazione divina.
Talvolta
il rito sacrificale comportava la consumazione dell'offerta anche da parte
dell'essere umano, cioè l'offerente stesso era chiamato a parteciparvi.
L'altare
cristiano, tuttavia, non si inserisce in questo contesto cultuale, anzi ne
prende le distanze. La sua specifica origine la troviamo non nelle are o negli
altari sacrificali delle antiche religioni, compresa anche quella ebraica, ma
nella tavola dell'ultima Cena.
Fonte:
Diego Giovanni Ravelli, La
Domus Ecclesiae. I luoghi della celebrazione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022, 81-82.