Sir 3,2-6.12-14; Sal 127; opp. Col 3,12-21; Mt
2,13-15.19-23
La parola che potrebbe sintetizzare l’insegnamento dei testi della Scrittura che abbiamo ascoltato è una parola che non è oggi di moda: “obbedienza”. La prima lettura è un brano del libro del Siracide che, rielaborando motivi di saggezza popolare, parla dei rapporti tra genitori e figli. Sulla stessa linea si muove l’esortazione di san Paolo ai Colossesi, da cui è tratta la seconda lettura: i figli devono onorare, obbedire i propri genitori, ed essi non devono esasperare i loro figli. C’è quindi anche un’obbedienza dei genitori che è obbedienza a Dio per il bene dei figli. Così vediamo nel racconto evangelico della fuga in Egitto che san Giuseppe fa quello che gli comanda Dio per mezzo dell’angelo e lo compie per la salvezza del bambino, perché ha paura di ciò che potrebbe capitargli di male. Nelle sue scelte, quindi, san Giuseppe è del tutto subordinato al bene del bambin Gesù di cui è padre putativo. Questi testi ci ricordano che paternità, maternità, figliolanza hanno tutte origine da Dio. Quando i rapporti familiari sono vissuti nell’ascolto della volontà di Dio, della sua parola, i vari ruoli familiari vengono liberati dai meccanismi dell’egoismo per lasciare spazio al vero amore. La famiglia cristiana dovrebbe essere un vangelo vivente, una buona notizia capace di trasmette un forte messaggio di speranza all’umanità.
La
nostra cultura sembra oggi molto cambiata e ci appare più complessa rispetto
alla visione dei rapporti familiari che emerge da questi antichi testi. C’è
però nel messaggio biblico sull’obbedienza un aspetto di grande e perenne
attualità. È stato notato, infatti, che nella lingua ebraica non esiste la
parola “obbedire”. Per esprimere questa nozione si usa spesso il semplice verbo
“ascoltare”. Obbedire nella Bibbia vuol dire quindi anzitutto dare ascolto.
Solo chi dà ascolto all’altro è capace di capirlo, rispettarlo, aiutarlo, ed è
quindi capace di crescere e costruire insieme con l’altro una vita armoniosa.
Non si tratta di un ascolto semplicemente formale, ma di una vera accoglienza
dell’altro nella propria vita. Dare ascolto a chi mi è vicino, ma soprattutto dare
ascolto a Dio nel cui disegno posso in qualche modo capire il mistero
dell’altro, di colui che come me è un figlio di Dio, amato e redento dal sangue
di Cristo. Attraverso una comprensione sempre più piena dell’amore di Dio per noi,
diventerà sempre più chiara la percezione della sua volontà di amore su di
noi.
Nella
Sacra Famiglia la Chiesa ci propone un esemplare di vita familiare, anzi di vita
in comune, non modellato sui criteri del benessere economico o del prestigio
sociale ma sui valori che scaturiscono dalla fede in Dio. Il modello proposto,
poi, trascende i limiti della famiglia come istituzione umana per proiettarsi
sui rapporti interpersonali che intercorrono tra gli esseri umani nella vita sociale,
nella Chiesa, in ogni singola comunità. La casa di Nazaret è una scuola di vita
in comune valida per tutti i tempi e per tutte le culture.