Il tema della comunione in bocca o sulla mano
continua ad essere un “tormentone” nei blog e in altri mezzi simili di
comunicazione. Se ne è occupato più volte l’agenzia Zenit, anche recentemente; il blog Messainlatino non si risparmia nelle critiche alla comunione sulla
mano; Don Giorgio Maffei parla addirittura del “sacrilegio della comunione
sulla mano” (http://www.preghiereagesuemaria.it/sala/storia%20della%20comunione%20sulla%20mano.htm); altri considerano la comunione sulla mano un
abuso.
Credo che tutti sanno quale sia la normativa liturgica in materia, che permette le due modalità.
Più volte mi sono occupato di questo argomento, soprattutto nello studio
pubblicato anni fa nella rivista Ecclesia
Orans (“A proposito della comunione sulla mano”, in Ecclesia Orans 8 [1991] 293-304). Riprendo, in seguito, un post dal
blog Controapologetica (3.11.2016) che, nonostante qualche imprecisione e ambiguità,
ha una certa originalità (http://www.controapologetica.info/testi.php?sottotitolo=Comunione%20in%20bocca%20o%20nella%20mano)
Tra
le questioni minori legate alla tematica del passaggio delle sacre specie nel
tubo digerente del fedele, ve n’è una che riguarda la pratica
liturgico-pastorale del sacramento. È la questione della liceità – o quanto meno opportunità - di ricevere l’ostia
nella mano anziché direttamente in bocca (si parla anche, rispettivamente, di
comunione “sulla mano” o “sulla lingua”).
Si
tratta di una disputa antichissima, divenuta però di grande attualità nel
periodo postconciliare, quando si sono fatte insistenti le pressioni per la
“liberalizzazione” della comunione sulla lingua. Nonostante la dichiarata
ostilità di Paolo VI alla nuova prassi (v. l’istruzione Memoriale Domini, del 1969), la CEI nel 1989 ha ufficialmente
stabilito che “accanto all’uso della Comunione sulla lingua, la Chiesa permette di dare l’Eucaristia
deponendola sulle mani dei fedeli”.
La
controversia ha risvolti dogmatici, e ha praticamente spaccato in due la
Chiesa. Ciascuno dei due partiti avversi elenca puntigliosamente, a sostegno
della propria tesi, tutta una serie di argomentazioni di ordine storico,
teologico, pastorale, e perfino igienico (“la comunione in bocca crea il
pericolo che il sacerdote tocchi la lingua del fedele e contamini così le ostie
distribuite successivamente”; “no, se questo dovesse capitare il sacerdote può
provvedere rapidamente a pulire la mano; l’Aids non si trasmette attraverso la
saliva; molto più contaminante è il contatto della mano con maniglie,
banconote, mani di altre persone, ecc.”).
Noi
non entriamo nel merito della disputa. Ci limitiamo a mettere in evidenza un
paio di aspetti della questione che hanno attinenza coi temi che abbiamo
trattato.
Il
primo riguarda il problema della metabolizzazione delle specie eucaristiche. È singolare infatti che a sostegno
della comunione sulla lingua si giunga a ricordare che già all’inizio del II
secolo “si proibì ai laici persino di toccare i vasi sacri; per cui è lecito
supporre che si vietasse ai medesimi di toccare le sacre specie” (Zoffoli, §
751).
Ora,
un’argomentazione del genere appare basata sull’ingenuo
presupposto che il contatto con la lingua, a differenza di quello con le mani,
non costituisca un “toccare”.
Sicché,
mentre le mani sono viste come qualcosa che compromette la purezza dell’ostia,
si immagina che quest’ultima, una volta delicatamente posata sulla lingua del
fedele, raggiunga direttamente il suo cuore integra e “intatta”, ossia “non
toccata”. Potremmo dire che è come se il sacerdote collocasse l’ostia nel cuore
stesso del comunicando, beatamente ignaro di tutte le trasformazioni degradanti
che essa inizia a subire già al primo contatto con la saliva.
Come
si vede, si tratta della stessa ingenuità
che abbiamo rilevato nella bolla “Transiturus”. Una volta posta nella
bocca, l’ostia viene considerata ormai “giunta a destinazione”, e quindi
definitivamente al riparo da ogni contatto che possa comprometterne la purezza.
In
realtà, come sappiamo, è Gesù stesso che ci ammonisce che le cose stanno in ben
altro modo: è proprio dal momento
dell’introduzione in bocca che iniziano i contatti più impuri, destinati a
trasformare la candida particola in un grumo di nauseabonda poltiglia.
La
seconda considerazione che intendiamo fare tocca il problema del rapporto che la Chiesa intende mantenere
con i fedeli nella gestione del sacramento eucaristico. La comunione sulla
lingua, infatti, richiamando l’immagine dell’uccellino che nel nido riceve
l’imbeccata dalla madre, diviene
straordinario emblema di tale rapporto.
La
situazione ricorda da vicino la proibizione di interpretare in modo autonomo la
Scrittura: la parola di Dio deve giungere al fedele opportunamente preparata,
cucinata (si vorrebbe dire “predigerita”) dalla Chiesa madre e maestra, così
come il boccone che talora la mamma provvede a sminuzzare e ammorbidire coi
denti per il suo bebè.
Come
si è detto, è come se il sacerdote, ponendo l’ostia consacrata sulla lingua del
fedele, la collocasse direttamente nel suo cuore. Il ruolo del comunicando viene ridotto al minimo: tutto si riduce
all’atto di protendere la lingua, giusto come i nidiaci aprono i loro minuscoli
becchi.
Ne
risulta proporzionalmente enfatizzato il ruolo di chi impartisce la comunione,
che si tratti del celebrante stesso o di qualcuno da lui autorizzato.
Altro
dettaglio importante: la comunione sulla lingua comporta di regola
l’inginocchiarsi di chi la riceve. Il gesto viene normalmente interpretato
come manifestazione di riverenza verso il divino che si cela nell’ostia, ma
finisce inevitabilmente per essere anche atto d’ossequio verso la figura di
colui che ne è tramite, e quindi verso la Chiesa.
In
sostanza, costituisce una riaffermazione della gerarchia, detentrice del potere
sacramentale. L’aspetto di “comunione” dell’eucaristia ne risulta ulteriormente
impoverito.
In
un’intervista rilasciata nel 2008 a “Radici
cristiane”, mons. Albert Malcolm Ranjith Patabendige, segretario della
Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, esprimeva il
proprio rammarico per il fatto che la prassi della comunione sulla mano,
autorizzata dalla Chiesa obtorto collo
in via sperimentale, sta guadagnando terreno in tutti i continenti; e ciò
benché il Pontefice mostri chiaramente col proprio esempio quale sia la
procedura più grata a Dio, distribuendo sempre l’ostia sulla lingua a fedeli
inginocchiati davanti a lui.
Noi
ci permettiamo di fare una considerazione, invitando anche in questo caso ad ascoltare le parole di Gesù stesso,
troppo spesso dimenticate quando fa comodo.
Nel
vangelo di Marco (14, 22) si legge: “E, mentre mangiavano, prese il pane e
recitò la benedizione, lo spezzò e lo
diede loro, dicendo: "Prendete,
questo è il mio corpo"”.
E
nel vangelo di Matteo (26, 26): “Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane,
recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo
dava ai discepoli, disse: "Prendete, mangiate: questo è il mio
corpo"”.
Gesù,
dunque, dopo aver spezzato il pane, lo dà
agli apostoli, sottolineando il gesto con un inequivocabile “prendete”. Gli apostoli quindi non
possono aver fatto altro che prenderlo
ciascuno nella propria mano.
Nessuno,
pensiamo, oserà immaginare un Gesù che imbocca personalmente i dodici
ponendogli i pezzi di pane sulla lingua. E nulla ci autorizza a pensare che
essi abbiano ricevuto il corpo di Cristo stando inginocchiati.
La comunione sulla mano ha quindi un indiscutibile
fondamento evangelico.
Il
Redentore evidentemente non temeva la contaminazione del pane al contatto delle
mani. E questo benché i discepoli non brillassero certo per scrupoli di
purificazione igienico-rituale in vista del pasto, come avevano denunciato
scribi e farisei nell’episodio di Mt 15, 11 ss. da noi ampiamente commentato.
Sappiamo
del resto come reagì Gesù a tali rimproveri: si limitò ad escludere
drasticamente ogni possibilità di contaminazione del cuore per via orale.
Vediamo
così che anche il tema delle modalità di somministrazione dell’eucaristia ci
porta a considerare quanto abbiamo detto circa una delle più gravi aporie
presenti nella dogmatica del sacramento.