Ci chiediamo
quali sono le condizioni per pronunciare sensatamente l’affermazione “Cristo
nostra Pasqua” (1Cor 5,7)? La teologia cristiana è chiamata a rispondere
anzitutto a questa domanda, ma per farlo deve assumere fino in fondo le implicazione
che il discorso stesso impone. In particolare essa suppone le seguenti
esigenze:
a)
che la Pasqua cristiana si ‘concentri’ nella passione, morte e risurrezione di
Cristo come fatto tutt’altro che ‘ovvio’, ma che anzi occorre continuamente
ricomprendere nel suo statuto sorprendente e meraviglioso, al limite dell’incredibile;
b)
che questa affermazione abbia al proprio interno una specifica dimensione rituale, senza la quale si
riduce facilmente ad uno slogan ideologico
e illusorio; ‘fare Pasqua’ è anche essenzialmente un ‘celebrare’;
c)
che a partire da questa affermazione, con tutto il suo carico di memoria
storica, possa e debba derivare una radicale trasformazione del rapporto con il
presente, con la mia vita ‘qui ed ora’;
d)
che non soltanto il singolo credente, ma la stessa comunità ecclesiale
riconosca di scaturire da quell’evento, si riscopra generata e contrassegnata
da quel gesto (storico e rituale) con cui Gesù ‘si dà’ ai suoi nella cena e
sulla croce.
(Andrea Grillo, Iniziati
alla Pasqua. Meditazioni per la Quaresima, Queriniana 2017, 69-70)