Propongo ai lettori del blog uno dei post che il Prof.
Andrea Grillo ha dedicato nel suo blog alla pubblicazione della Lettera circolare ai Vescovi sul pane e il
vino per l’Eucaristia (15 giugno 2017). Anche se la Congregazione per il
culto divino non ha preteso altro che ricordare la normativa attuale sull’argomento,
il documento può suscitare una serie di reazioni che vanno oltre e al di là del
documento stesso, ma che ci fanno riflettere su problematiche che la Chiesa
dovrebbe in qualche modo affrontare.
Le sfortune dei celiaci, la definizione del pane e la societas perfecta
Le reazioni alla lettera
che la Congregazione per il culto divino ha scritto il 15 giugno a proposito
del pane e vino eucaristici rivelano alcune cose importanti, su cui è bene
riflettere con cura. E voglio cominciare con una considerazione che riguarda
una condizione – quella dei celiaci – che la lettera considera solo
indirettamente, ossia nel definire “materia valida” per l’eucaristia quel pane
che contenga almeno un certo livello di “glutine”. I soggetti non sono
considerati, se non indirettamente, secondo la “definizione della materia”.
Questo stile è classico per il magistero ecclesiale. Esso era maturato nello
schema della società chiusa, che aveva bisogno di certezze immediate e
immediatamente applicabili. Una definizione netta di “pane” permetteva di
separare drasticamente due campi, senza mediazioni, che distinguono tra
“materia valida” e “materia invalida”. Questo riduce le variabili, semplifica
le articolazioni pastorali, assicura il controllo del popolo. Questa
impostazione, se non viene oggi calibrata sulla “società aperta”, produce
continue ingiustizie e perde preziose occasioni di riconoscimento. Proviamo a
capire perché.
Pane e vino non sono
concetti teologici
Una cosa è evidente,
nella tradizione cristiana. Che la teologia del corpo e sangue di Cristo viene
mediata dal pane e dal vino dati, offerti, ricevuti, mangiati e bevuti, assunti
e assimilati. Ma la competenza della Chiesa e del teologo non copre tutta la
realtà. Ciò che pane e vino sono in una data cultura non può essere definito
dalla Chiesa. Essa riceve, nella cultura, la mediazione del Corpo di Cristo. La
pretesa di definire teologicamente, dottrinalmente e disciplinarmente la
materia contraddice con la logica complessa della rivelazione in Cristo. Nella
eucaristia, come insegna Tommaso d’Aquino, il pane e il vino sono “specie
inaggirabili”. Per questo la cultura umana, la storia e la simbolica dell’uomo,
sono assunte nella narrazione e nel rito centrale della fede cristiana.
Il celiaco e la dottrina
ecclesiale
La Chiesa si è abituata,
invece, a definire anche ciò su cui non ha assoluta competenza. Non può
definire in modo assoluto né il pane né il vino. Nel pane e nel vino parlano
una cultura e una storia che la Chiesa riceve e non può anticipare. Ma non
basta. La Chiesa dovrebbe avere imparato, dalla storia degli ultimi 200 anni,
che identificare lo “status quo” con la volontà di Dio è un pericolo troppo
grande. Questo è un tipico difetto della società chiusa o pre-moderna: essa può
correre sempre il rischio di identificare la volontà di Dio con un mondo senza
ferrovie, senza donne che praticano lo sport, senza donne giudice o senza
scuole pubbliche obbligatorie. Questa tendenza si è mostrata molto forte anche
nel modo di interpretare le forme di “disabilità” o di “limitazione”.
Attribuire “diritti” al disabile è stata una fatica grande, che la Chiesa ha
dovuto imparare dal mondo tardo-moderno. Più semplice, e più devoto appariva
semplicemente accettare lo status quo.
La società chiusa non è
societas perfecta
Abbiamo appreso che
questa via non è né la primaria né la sola. La differenza tra società chiusa e
società aperta è precisamente qui: non si accetta più la propria condizione
come un “destino di discriminazione giustificata dall’alto”. Qui torna utile
rileggere la Summa Theologiae di Tommaso, quando elenca uno dei “luoghi comuni”
della società chiusa, che l’ex prefetto della Congregazione per la dottrina
della fede considerava un testo fondamentale per la teologia del ministero
ordinato, mentre si tratta soltanto della onesta fotografia della struttura
ingiusta della società chiusa. Quando Tommaso elenca i “motivi di esclusione
dalla ordinazione”, fa un elenco dei soggetti che non possono esercitare la
autorità. Eccoli: donne, minori e incapaci, schiavi, assassini, figli naturali,
disabili. Nella categorie dei disabili rientrano anche, sia pure in una forma
particolare, i celiaci. Con una definizione rigida del pane, la Congregazione
per il culto ha mostrato di non essere ancora uscita dalla logica di una
società chiusa che non è una affatto societas perfecta. E nella quale l’essere
celiaci continua a restare “causa di esclusione dalla ordinazione”.
Le diverse forme del
pane, del vino e dei soggetti
Come uscire da questa
condizione di minorità? Come appare evidente, dal breve ragionamento proposto,
accettare che la Chiesa non abbia una autorità assoluta per definire che cosa
sia pane e vino aiuterebbe a considerare con un minimo di attenzione alcune
cose:
- il pane, dal punto di
vista oggettivo, si dà in forme diverse secondo diverse culture. Questo non è
anzitutto un pericolo, ma una ricchezza per la tradizione;
- i soggetti che si
relazionano al pane lo trasformano a partire dalla loro cultura o dalla loro
natura. E questo apporto non può essere né perduto né estromesso;
- pane e vino portano
nella eucaristia non solo una “materia fisica”, ma una storia e una simbolica
che deve arricchirsi delle logiche del femminile, del minorile, del folle, del
carcerato, del figlio naturale e del disabile.
Considerare questi come
titoli di merito e di privilegio,piuttosto che come titoli di minorità o di
esclusione, non è forse proprio uno dei significati più alti dell’eucaristia? E
chi mai dovrebbe parlare di tutto questo se non la Congregazione per il culto
divino? Che invece preferisce le rigidità della società chiusa alle ricchezze
della società aperta?