Luigi Martinelli, “Missa” in scena. Riflessioni teatrale sulla liturgia, Cavinato
Editore International, Brescia 2017. 360 pp.
Il giovane Autore Luigi Martinelli, laureato in
Scienze e Tecnologie delle Arti e dello Spettacolo, attraverso una comparazione
con il mondo del teatro e dello spettacolo, intende suggerire alla liturgia
proposte di cambiamento e di riforma perché, secondo lui, “la crisi liturgica
contemporanea ha imbrigliato la liturgia cattolica nel verbalismo, nella
sovraesposizione fonetica e nel creativismo”.
Pur riconoscendo la validità del discorso che
riguarda il rapporto tra rito e teatro, qui mi soffermo solo su ‘alcuni’
aspetti della parte propriamente liturgica del volume. L’Autore, pur non
proponendo il ritorno al Vetus Ordo (VO),
ne esalta la performance probabilmente perché il volume è anche il racconto della
propria esperienza; infatti egli afferma che dopo aver “sperimentato la noia e
l’inespressività di certe liturgie cattoliche post-conciliari”, si è sentito
“sfiorato potentemente dal senso del Sacro, dalla grazia salvifica di Cristo”
nella partecipazione al VO (pp. 244-246).
Come ha scritto Loris Della Pietra, “di fronte
agli accenti polemici di chi lamenta la sparizione di un presunto 'senso del
mistero', occorre ribadire che esso non può essere confinato in una fase
evolutiva del rito romano e tanto meno in quegli aspetti che tendono piuttosto
a occultare che a mostrare, ma è dato e mediato dalla partecipazione alle
modalità 'linguistiche' proprie del rito” (Una
Chiesa che celebra, Messaggero, Padova 2017, p. 57). Credo che le modalità
linguistiche del Novus Ordo (NO)
possono introdurre in una vera esperienza del mistero celebrato.
Come dice Tommaso d’Aquino, “il culto esterno è
sempre ordinato principalmente a disporre gli uomini al rispetto verso Dio” (totus exterior cultus Dei ad hoc praecipue
ordinatur ut homines Deum in reverentia habeant). (Iª-IIae
q. 102 a. 4 co.). Noto
che l’Ordinamento generale del Messale
Romano (OGMR) fa sovente riferimento alla “riverenza” con cui si devono
gestire i diversi momenti della celebrazione (al riguardo, si può leggere M.
Brulin, Requête de sacralité ou entrée dans le Mystère? L’aport de la PGMR
2002, in “La Maison-Dieu”,
n. 257, 2009/1, 99-129).
Il nostro Autore, dopo affermare che il NO ha il
difetto di essere troppo verboso, dice che “un grande esempio di come disporre
il silenzio ‘attivo’ nella liturgia ci viene dato dalla liturgia romana nella
forma straordinaria”. Non c’è dubbio che la forma ordinaria e piuttosto verbosa, in modo
particolare quando alle parole del libro liturgico vengono aggiunte altre dal
celebrante o dagli eventuali commentatori.
Quando parliamo di silenzio, però, nella
celebrazione liturgica, quindi anche nella celebrazione col NO, non parliamo
solo dei momenti di silenzio in senso stretto, che sono pur previsti (e gestiti
bene, non sono semplici pause), ma parliamo anche e soprattutto di un atteggiamento ‘silenzioso’, che può permeare
l’intera celebrazione se gestita in modo dovuto. Infatti anche le parole del
rito sono in qualche modo silenziose, perché non nascono dalle nostre
chiacchiere quotidiane che si moltiplicano con la stessa rapidità con cui
svaniscono, ma permangono di generazione in generazione e si dispongono sulla
bocca dei celebranti (presbiteri o laici) per aiutarli a dialogare con Dio (cf.
SC 33). Quando il lettore proclama i testi biblici, non pronuncia parole
proprie; potremmo dire che egli non parla affatto: dicendo la Parola di Dio, il
lettore fa silenzio, poiché fa tacere le proprie parole. Ma anche compiendo il
gesto di Cristo, il presbitero all’altare fa silenzio, ossia sospende il suo gesticolare
quotidiano. Il chiacchierare e il gesticolare lasciano il posto alla parola e
al gesto in cui l’uomo non si disperde ma ritrova se stesso, la parola e il
gesto in cui riposano le radici dell’esistenza umana e in cui si può scorgere
Dio: “quando la Chiesa prega o canta o agisce, la fede dei partecipanti è
alimentata, le menti sono elevate verso Dio per rendergli un ossequio
ragionevole e ricevere con più abbondanza la sua grazia” (SC 33). (Su questo argomento, invito
a leggere Giorgio Bonaccorso, Liturgia e comunicazione, in F. Lever – P. C. Rivoltella –
A. Zanacchi, edd., La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche,
www.lacomunicazione.it (11/08/2017).
Luigi Martinelli dirà forse che queste mie parole
sono “dichiarazioni roboanti dei teorizzatori, dei creatori e dei sostenitori
della liturgia postconciliare” (p. 156). Nulla di tutto ciò. La forma ordinaria
del rito romano, celebrata bene, funziona. Ciò non toglie che
l’esperienza di questi ultimi decenni possa anche raccomandare qualche ritocco
per renderla meno verbosa e dare il posto dovuto alla dimensione corporale, al
gesto, insomma alla dimensione rituale. Al tempo stesso però è evidente che il
contenuto ha una sua importanza; la dottrina dei testi ha conosciuto nel NO un arricchimento che va conservato. La
partecipazione è “per ritus et preces”.
L’Autore afferma che “la forma ordinaria del rito
romano allo stato attuale non riesce ad appagare la fame di sacro e la sete di
mistero…” (p. 141) e quindi ciò spinge talvolta ad una creatività selvaggia che
rischia di svuotare la liturgia dalle sue peculiarità originali. Purtroppo sono
situazioni abusive documentate anche se non generalizzate. Per superarle basterebbe,
ripeto, celebrare in modo dignitoso secondo le norme dell’OGMR. Se i rischi del
NO sono questi e altri simili, noto che anche il VO ha i suoi rischi ampiamente
documentati negli anni passati, di cui sono testimone per avervi partecipato
nei 14 anni di seminario e nei primi dieci anni di sacerdote.
Mi sono abituato a sentir parlare male del NO e,
pur prendendo sul serio le critiche che gli si rivolgono, ogni volta sono più
convinto che questo male-detto NO ha delle possibilità immense di introdurmi in
una vera esperienza del Mistero.
M.A.
M.A.