A PROPOSITO DI “MAGNUM PRINCIPIUM”
Il
recente motu proprio Magnum principium
inizia ricordando “l’importante principio”, confermato dal Concilio Ecumenico Vaticano II,
secondo cui la preghiera liturgica, deve essere adattata alla comprensione del
popolo, e che possa essere capita. Il
Vaticano II riconosce il valore della comprensione del rito, tra l’altro,
quando prescrive che “i riti siano adatti alla capacità di comprensione dei
fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC 34).
Questo
principio lo fece proprio anche il Concilio di Trento quando riconobbe che la
messa “contiene abbondante materia per l’istruzione del popolo cristiano” e,
pur conservando la lingua latina, comandò “ai pastori e a tutti quelli che
hanno cura d’anime di spiegare spesso personalmente o di far spiegare da altri,
durante la celebrazione delle messe, qualche cosa di quello che ivi si legge e,
tra l’altro, qualche cosa del mistero di questo santissimo sacrificio, specie
nelle domeniche e nei giorni di festa” (Denzinger
1749). Come afferma il prof. John W.
O’Malley, “Purtroppo, molto prima che terminasse il concilio, a tal punto il
latino era diventato un segno chiaro della identità dei cattolici che il suo
uso si è imposto incontestabilmente…” (Trento.
Qué pasó en el concilio?, Sal Terrae 2015, p. 190).
Come
interpretare questo “importante principio”? Si potrebbe interpretare, ed è un
rischio, come una forzatura razionalistica che riduce il rito entro i confini
della ragione. Il rito non va interpretato secondo la logica della razionalità,
ma secondo la logica del simbolo. L’interpretazione più corretta del principio si
raggiunge solo se cerchiamo di mettere questo e altri principi della SC in
rapporto con il regime rituale precedente alla riforma di Paolo VI e con la
percezione di insostenibile distanza con cui la celebrazione era percepita dai
fedeli.
M.
A.