«Ci si rende conto,
come annotava Guardini, che “l’uomo vive nel linguaggio e in virtù di esso” e
che pertanto “il linguaggio è un ambito oggettivo, un contesto di strutture di significato
che accoglie il singolo alla nascita, nel quale egli si muove, dal quale riceve
forma e impronta fino nel più profondo, che dischiude certi ambiti di vita e
altri ne preclude” (R. Guardini, Etica.
Lezioni all’Università di Monaco (1950-1962), Morcelliana, Brescia 2001,
242). Detto altrimenti, è chiaro che la lingua viva, ogni lingua, proprio per
la capacità di dare forma all’uomo e al pensiero, di scavare nel profondo
dell’esperienza e dell’autocoscienza, di consentire l’accesso al reale, è e deve
essere singolare e autorevole mediazione
del mistero. Al di fuori di una visione così ampia, ogni discorso sulla lingua
del popolo nella liturgia, favorevole o contrario, risulta sterile e a corto
respiro.
[…] Ogni lingua è
liturgica nella misura in cui può garantire la partecipazione di tutto l’uomo,
del suo volere come del suo sentire, al dono di grazia, percependo la distanza
dall’Altissimo e gustandone la consolante presenza, ascoltandone la voce e, al
contempo, rimanendo in vita (cf. Dt
4,23). Non può esserci ostacolo alcuno all’ingresso delle lingue degli uomini
nella liturgia, e se nessuna lingua “sacra” può arrogarsi l’esclusiva di poter
dire il mistero o di rivestire i tanti atteggiamenti della fede, così nessuna
lingua è tanto povera da non poter essere umile epifania delle opere di Dio e
dare voce alla risposta degli oranti […]
La logica
dell’incarnazione pretende che anche la celebrazione assicuri il doppio binario
dell’ulteriorità, per il quale la
liturgia con i suoi linguaggi rinvia al mistero che le parole umane riescono a
malapena a balbettare, e dell’umanità,
per il quale il celebrare non tradisce il radicamento storico e culturale dei
celebranti.»
(Loris Della Pietra, La parola restituita. La ricchezza del
linguaggio liturgico, San Paolo, Cinisello Balsamo 2017, pp. 53-55).