Pubblicato
il 9 marzo 2016 nel blog: Come se non
La condizione della “traduzione” a livello
liturgico è giunta a una “impasse”. L’effetto di distorsione che la V
Istruzione ha prodotto a livello universale è ormai noto anche ai più strenui
difensori della “svolta letteralista”. Le Conferenze episcopali anglofone,
quella tedesca, quella francese, quella italiana, sia pure in modi e forme
diversi, hanno preso atto che i libri prodotti da Liturgiam Authenticam
non sono fruibili. Se si osservano i criteri della Istruzione, si producono
testi inutilizzabili. Se si vogliono produrre testi utilizzabili, occorre
discostarsi sensibilmente dai criteri “irreali” di LA. Oggi tutto si è
bloccato: i libri approvati non funzionano, e le conferenze episcopali
rinunciano a presentare i nuovi, per evitare ulteriori guai, sia con i
destinatari, sia con le autorità di controllo.
Per uscire da questa paralisi ho sollevato una
serie di questioni in vista di una nuova Istruzione e le ho proposte al
pubblico dibattito ecclesiale. Le richiamo qui sotto:
a) Quale bilancio possiamo fare della V
Istruzione, dopo 15 anni dalla sua approvazione ed entrata in vigore?
b) Per quali ragioni appare urgente una “VI
Istruzione” per la attuazione della Riforma Liturgica?
c) Quali sono i contenuti fondamentali che
una tale Istruzione dovrebbe prevedere?
Ho anche provveduto a indirizzare direttamente
ad “esperti” – direttamente impegnati nel lavoro di traduzione – le medesime
questioni e alcuni di loro hanno iniziato a rispondere. Con grande parresia e
dicendo cose del massimo interesse. Riporto le prime reazioni significative.
Abrogazione di LA o rilancio della
inculturazione?
Nelle risposte vi è una comunanza di
orientamento sulla esigenza di operare una svolta decisa rispetto alle pretese
di “letteralismo” di LA. Una prima proposta è così formulata:
“Non credo che la via
della "VI istruzione" sia davvero praticabile. Io desidererei la
cancellazione pura e semplice di "Liturgiam Authenticam", che ammetto
essere altrettanto impraticabile, ma almeno eviterebbe di manifestare delle
contraddizioni palesi che getterebbero nel ridicolo. A che pro scrivere
documenti, se quello successivo può apertamente contraddirlo? Non potrebbe fare
altrettanto una "VII istruzione" posteriore di quindici anni?”
La questione è effettivamente piuttosto seria.
LA ha preteso di abrogare ogni documento precedente e così ha bloccato la
produzione significativa nelle lingue vernacole. La via di uscita è comunque la
abrogazione di LA: o mediante un nuovo documento che la abroghi, o con una
abrogazione che rimetta in vigore i documenti precedenti. A me sembra più
coerente “avanzare” piuttosto che retrocedere, ma è legittimo ipotizzare che la
seconda soluzione sia più semplice e sicuramente più “economica”.
Un altro interlocutore dice invece:
“Bisogna finirla con un
concetto di traduzione “letterale” che mortifica sia la ricchezza del testo
latino sia la stessa lingua parlata in cui questo testo si deve esprimere.
Bisogna decentralizzare e quindi dare fiducia alle Conferenze episcopali che
possono giudicare meglio il linguaggio adoperato sul territorio. Anzi,
bisognerebbe dare ai vescovi una certa libertà in modo che la traduzione dei
testi sia veramente un atto di inculturazione del testo latino in un
determinato ambito linguistico”.
Questo avviso ritiene importante riaprire il
confronto con le diverse culture, prendendo sul serio non solo la lingua e la
cultura di partenza, ma anche quella di arrivo, come richiede ogni traduzione
che voglia essere realmente utilizzabile e che non abbia bisogno di una
continua “esplicazione” parallela.
La ricchezza espressiva della tradizione
latina e delle lingue moderne
Un terzo esperto propone una considerazione
più articolata, che voglio riportare integralmente. In essa appare con molta
chiarezza il compito di “fedeltà” all’originale che le lingue moderne possono e
devono realizzare, secondo la loro cultura e il loro “genio”, superando sia le
tentazioni tradizionalistiche, sia le semplificazioni funzionalistiche.
“Varie ragioni mi hanno
spinto a occuparmi dei testi liturgici presenti negli attuali libri per la
Chiesa italiana. Mi sono dedicato alla questione della lingua/traduzione e ho
dovuto affrontare anche LA. È chiaro che quel documento presenta grandissime
difficoltà che molti esperti hanno rilevato (ad esempio, R. De Zan su “Rivista
Liturgica”) e soprattutto il tentativo di rinchiudere l’affidabilità del testo
soltanto nel suo originale come se la traduzione fosse “spuria”, inaffidabile.
A mio avviso il grande peccato originale di LA è la totale sfiducia nei
confronti delle lingue vive e delle culture d’arrivo e un eventuale VI
Istruzione dovrebbe dipendere innanzitutto da una seria riflessione su che
cos’è la lingua a partire dalla “svolta linguistica” in ambito filosofico.
Detto questo, credo che un richiamo alla fedeltà dell’originale
sia quanto mai necessario. Ad es., le sfumature emotive dell’eucologia sono
state rese in chiave etica o noetica. Era la temperie culturale degli anni ’70
(e primissimi ’80)? Certo è che se LA è figlia di un’ideologia conservatrice e
miope di fronte alle culture e alla Weltanschauung di ogni lingua,
certe traduzioni lo sono altrettanto per altre ragioni. Si può perdere tutto il
bagaglio affettivo, metaforico, simbolico, immaginifico dell’originale, per
traduzioni “piane” (o piatte) preoccupate soltanto di appianare e svelare il
contento? Ma quale contenuto? È proprio vero che eliminando l’immagine della
rugiada dal post-Sanctus della preghiera eucaristica II (Spiritus
tui rore sanctifica) e rendendola con “effusione” ci guadagna la
trasmissione/recezione del significato? La “trasmissione/percezione del senso”
è data dalla comprensione del contenuto o dal quel “per ritus et preces” che è
attuato anche dall’immagine contenuta nel test che poi sarà detto o cantato?
Sappiamo come le realtà misteriche, e tra queste lo Spirito,
necessitino di essere dette con un linguaggio “altro”, poco tecnico e molto
metaforico. E su questo la grande tradizione ecclesiale è maestra. Faccio un
altro esempio. L’orazione dell’ultima raccomandazione e commiato del Rito delle
Esequie si chiude in forma di intercessione per il defunto con l’immagine
delle porte del paradiso che solo la misericordia infinita di Dio possono
dischiudere. Nell’originale latino c’è una sorta di parallelismo istituito tra
le orecchie della misericordia di Dio che si aprono per le
preghiere dei credenti e le porte del paradiso che si spalancano per
il defunto: «Pateant ergo, Dominem, precibus nostris aures misericordiae tuae,
ut portae paradisi aperiantur famulo tuo». Così per le preghiere dei fedeli si
aprono le orecchie misericordiose del Padre e si spalancano le porte del
paradiso per coloro che terminano la giornata terrena. Ora il testo italiano
(del 2011) omette questo parallelismo giocato sul concetto di “apertura” e a
mio avviso è un impoverimento dal momento che l’emozione accesa dal
parallelismo verbale è più forte di ogni persuasione intellettualistica.
Che fare?
a) Occorrono traduzioni “graziose”, non impacciate e rigide, ma
anche davvero fedeli al senso dell’originale per non avere effettivamente un
altro senso con un altro testo e per non smarrire un patrimonio che la
tradizione ci ha consegnato. Mi rendo conto che non è sempre facile, ma non è
impossibile. È in gioco anche una certa comunione tra le generazioni di cui tu
hai parlato a proposito dell’idea di riforma liturgica oltre che di
condivisione di un medesimo repertorio simbolico-testuale da parte di chi appartiene
ad uno stesso milieu rituale. Per non parlare del fatto che
buona parte delle metafore impiegate nei testi liturgici trovano la loro culla
nel testo biblico.
b) Occorrono testi nuovi nelle
lingue vive da affiancare ai testi antichi tradotti, in modo tale che
l’italiano, l’inglese, il malgascio del XXI, secolo possano pregare nella
propria lingua e secondo il proprio genio. Su questo la Congregazione è molto
cauta in ragione della “sostanziale unità del rito romano”. Eppure, se grande è
la ricchezza che la tradizione ecclesiale ci ha consegnato (per lo più
dell’Europa occidentale in epoca altomedievale, come gli antichi Sacramentari),
non è accettabile che le comunità oranti del mondo rimangano semplicemente
debitrici di questa tradizione e inabili alla composizione di testi che
rispecchino il loro stile e il loro genio.”
Una nuova Istruzione dovrebbe unire, con grande autorevolezza,
questi due “corni” della questione: valorizzare la ricchezza espressiva della
tradizione, e incentivare le “nuove culture” ad esprimere “ex novo” la forza e
la bellezza del mistero pasquale.