UNIVERSITA’ DI
PISA
PIERLUIGI
CONSORTI
Il
Cardinale Robert Sarah ha diffuso una sua personale
interpretazione del Motu proprio
Magnum Principium che ha recentemente modificato il canone 838 del
codice di diritto canonico. La riforma si è resa necessaria per chiarire
quali debbano essere i termini della relazione fra la competenza legislativa
propria assegnata in materia liturgica alle Conferenze episcopali e la
competenza esecutiva della Sede apostolica alla luce dei principi conciliari.
Il canone si esprimeva per la verità in modo già sufficientemente chiaro, ma la
prassi amministrativa aveva generato molte difficoltà applicative, che la
riforma ha voluto definitivamente dissipare.
Vale
la pena ricordare che nella Chiesa la forza normativa dipende dall’autorità del
soggetto che emana una legge e che la potestà legislativa è connessa al munus episcopale.
Ciascun vescovo diocesano gode della pienezza della potestà normativa verso il
popolo che gli è stato affidato. Tuttavia il Concilio ha spiegato che non si
tratta di un potere personale quanto di un effetto della comunione che
caratterizza il munus di ciascun vescovo in quanto membro del
collegio episcopale. In questo modo ogni Chiesa particolare è parte dell’unica
Chiesa universale sicché la potestà normativa propria di ciascun vescovo
diocesano si raccorda con quella di tutti gli altri vescovi in comunione con
quello di Roma. Tale vincolo si realizza anche attraverso diverse forme di
collegamento tra vescovi diocesani. Il Concilio in questo senso ha valorizzato
le Conferenze episcopali nazionali rispetto ad altri soggetti aggregativi
risalenti nel tempo, come le regioni ecclesiastiche e i concili locali.
Le
funzioni attribuite alle Conferenze episcopali prevedono una competenza
legislativa speciale limitata a casi ben determinati. Il can. 838 è uno
di questi, e costituisce un esempio della dialettica normativa che, per
semplicità, possiamo definire equilibrata fra centro e periferia. Nella
versione originaria – che riprende il numero 22 di Sacrosanctum
concilium – esso si apre con un paragrafo dichiarativo del
principio generale che attribuisce solo alla Chiesa la potestà di definire le regole
liturgiche (in sostanza esclude ingerenze di soggetti estranei) riconoscendo
una competenza propria sia alla Sede apostolica sia ai Vescovi diocesani. Il
secondo paragrafo precisa la competenza della Sede apostolica nel senso di
ordinare la liturgia della Chiesa universale, pubblicando i libri liturgici,
rivedendo (lett.: recognoscere) le loro versioni nelle lingue
volgari e vigilando “ovunque” sulla fedele osservanza delle norme liturgiche.
Il terzo paragrafo attribuisce alle Conferenze episcopali la competenza di
predisporre le versioni dei libri liturgici nelle lingue volgari, anche
“adattandole convenientemente” nei limiti previsti dagli stessi libri
liturgici, per poi pubblicarli “praevia recognitione Sanctae Sedis”. Il
quarto e ultimo paragrafo chiude il cerchio rammentando che al Vescovo
diocesano spetta la competenza di dare norme liturgiche particolari che tutti i
fedeli della sua diocesi sono tenuti ad osservare.
In
sostanza il canone ripartisce con precisione le competenze legislative in materia
liturgica partendo da quella propria dei singoli vescovi per le loro diocesi e
differenziando quella della Sede apostolica (paragrafo secondo) da quella delle
Conferenze episcopali (paragrafo terzo). Nella prassi tuttavia la Congregazione
per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ha operato attribuendosi un
compito censorio connesso sia alla verifica della fedeltà delle traduzioni
nelle lingue volgari rispetto alla Editio typica, sia alla
pubblicazione dei libri liturgici particolari sulla base di un’errata
interpretazione dei termini recognoscere e recognitio,
grossolanamente tradotti in italiano con “autorizzare”. L’errata
interpretazione della recognitio come autorizzazione è
stata messa in luce da un’apposita Nota
esplicativa del 2006 del Pontificio consiglio per l’interpretazione dei testi
legislativi , che invita a rendere recognitio con revisione.
La stessa Nota rammenta poi la sussistenza di una differenza giuridica
fra recognitio, approbatio e confirmatio,
nessuna delle quali equivale ad autorizzazione. Anche perché nella
logica collegiale sarebbe errato suppore una subordinazione gerarchica fra
organi chiamati a svolgere funzioni bensì collegate, ma in ogni caso diverse,
rispetto alle quali nessuno è superiore ad un altro. La Sede apostolica quindi
revisiona le versioni svolte dalle Conferenze episcopali, ma non le autorizza
né approva né conferma. Anche la pubblicazione dei libri liturgici particolari
era soggetta ad una revisione della Sede apostolica, che sulla base di Sacrosanctum
concilium doveva intendersi in senso meramente tecnico e sussidiario,
avrebbe altrimenti invaso una potestà normativa attribuita agli organismi
territoriali.
La
Congregazione interpretava però la sua funzione in senso diverso: nell’Istruzione
Liturgiam authenticam (2001) esaltava la sua funzione di
governo della liturgia intendendo la recognitio quale vera e
propria approbatio, in assenza della quale supponeva gli atti
assunti dalle Conferenze episcopali del tutto privi di forza normativa. Per
cambiare questa interpretazione il legislatore universale è intervenuto
modificando i paragrafi 2 e 3 del can. 838. Il primo di questi attribuisce
adesso alla Sede apostolica la funzione di recognoscere (revisionare)
gli adattamenti dei libri liturgici già approvati a norma del diritto dalle
Conferenze episcopali e l’altro dispone che le Conferenze episcopali preparino
e approvino i libri liturgici da utilizzare nelle regioni di loro pertinenza,
accomodandoli convenientemente e fedelmente (nuovo avverbio), nonché
pubblicandoli “post confirmationem Apostolicae Sedis”. La lettera di
queste modifiche avrebbe dovuto tagliare la testa a qualsiasi ulteriore
perplessità esecutiva. Il legislatore universale ha ribadito il magnum
principiumconciliare che negli anni si era perso e, a scanso di equivoci,
la Santa Sede ha pubblicato una Nota del Segretario della Congregazione per il
culto e la disciplina dei sacramenti che fra le altre cose precisa come la
sostituzione di confirmatio in luogo di recognitio sia
stata voluta proprio per lasciare alla Sede apostolica un intervento meramente
confermativo della volontà espressa dalle Conferenze episcopali, unici soggetti
competenti in materia di traduzione e accomodamento dei testi liturgici. A tale
riguardo soccorre anche Sacrosanctum
concilium (numero 36) che, riguardo alla lingua liturgica,
si esprime nei termini di conferma da parte della Sede
apostolica delle decisioni assunte dai vescovi su base territoriale e di approvazione delle
traduzioni da parte delle medesime autorità territoriali (le Conferenze
episcopali nazionali).La differenza tra confirmatio e recognitioriposa
peraltro su solide basi canonistiche ed appare evidente che adesso è richiesta
una mera confirmatio solo per pubblicare i libri liturgici già
preparati e approvati dalle Conferenze episcopali, perciò pienamente dotati di
forza normativa. La riforma
del canone 838 va quindi intesa come la precisazione canonistica di un più
largo disegno di restituzione della liturgia alla sua funzione comunicativa del
messaggio di salvezza, che va oltre la “guerra delle traduzioni”.
Una
volta si sarebbe detto Roma locuta, causa finita, ma i tempi sono
cambiati; così il cardinale Sarah, Prefetto in carica della Congregazione
chiamata per prima a cambiare passo, ha creduto opportuno manifestare il suo
umile (benché cardinalizio) parere e segnalare la sua personale opposizione.
Egli ritiene infatti che la riforma non abbia cambiato nulla e tenta una
disperata difesa dell’equivalenza canonistica fra recognitio e confirmatio.
A suo parere la riforma ha anzi rafforzato il ruolo della Congregazione, che
non solo deve “riconoscere gli adattamenti” ma “confermare la fedeltà delle
traduzioni”. Nel primo caso quindi il ruolo censorio resta invariato, e nel
secondo addirittura accresciuto.
Questa
interpretazione formalistica tradisce lo spirito della riforma e si oppone
apertamente alla mente del legislatore. La resistenza cardinalizia esprime una
visione centralistica, curiale e anticonciliare della Chiesa esplicitamente
disegnata nella parte conclusiva del suo scritto, ove paragona
paternalisticamente il rapporto fra la Sede apostolica e le Conferenze
episcopali “alla responsabilità del professore nei confronti dello studente che
prepara una tesi o, più semplicemente, dei genitori nei confronti dei compiti a
casa dei figli”. Questa visione piccina della Chiesa consegna l’immagine
di un “prefetto
piccolo”, adatto forse a svolgere compiti esecutivi, ma certo
lontano dall’incarnare la funzione di servizio alla comunione episcopale che
dovrebbe caratterizzarne il ruolo.
Questa
circostanza induce ancora una volta a ragionare sull’ignoranza del diritto
canonico e sulla sua strumentalizzazione come mezzo di conservazione del
potere. Un arnese buono per mantenere il passato e condizionare il futuro,
utile persino per resistere allo Spirito che ancora soffia nella Chiesa. Non
abbiamo bisogno di battaglie di retroguardia. Non ci servono cardinali
resistenti: abbiamo bisogno di un diritto canonico periferico, che parli le
lingue degli uomini e delle donne per aiutare a vivere il Vangelo; abbiamo
bisogno di una liturgia che esprima il mistero di Cristo nella vita della
Chiesa; abbiamo bisogno di adattare le istituzioni alle esigenze del nostro
tempo per favorire l’unione dei credenti in Cristo. Abbiamo bisogno di
conversione.