Questo
principio della Regola di san
Benedetto (19,7) è decisivo nella vita di preghiera. Noi avremmo la tendenza,
soprattutto oggi per la cultura dominante, a capovolgerlo, a pensare che la
voce deve concordare con la mente e con il cuore. Invece questo principio va
colto in tutta la sua singolarità: è il cuore, e la mente che deve concordare
con la voce, non il contrario. Questo è carico di significato non solo per
l’ufficio, ma oserei dire per tutta la liturgia cristiana.
Innanzitutto
non dobbiamo dimenticare che quando Benedetto ha scritto questa Regola nessuno leggeva come noi oggi
leggiamo. Noi oggi leggiamo in silenzio perché gli occhi sono capaci di
percorrere il testo scritto e di arrivare a deporlo nella nostra intelligenza,
nel nostro cuore. Ma nel primo millennio non si è dato mai lettura che non
fosse vocale, una lettura cioè in cui si udiva il testo pronunciato leggendo.
Di conseguenza quando si dice: Mens
concordet voci, significa che la mente deve concordare con la voce che
legge il Salterio o la Scrittura. Così si dà un primato alla Scrittura e dunque
alla parola di Dio, non a quello che noi sentiamo.
Da
qui discende qualcosa di molto importante: chi prega, chi canta, deve avere una
preghiera, un canto pienamente intelligibile, comprensibile. Non possono
prevalere il canto e i suoi virtuosismi sullo “sta scritto”. Il primato è della
parola. E questo significa che non si potrà mai avere una liturgia cristiana
con delle parole che non siano intelligibili dai fedeli. Non è possibile
pregare nella liturgia, parteciparvi se non si comprende ciò che viene detto. Mens concordet voci significa anche
questo: è uno sforzo di obbedienza. Non a caso dom Jean-Baptiste Chautard, nel
commentare questo versetto, diceva: “E’ una questione di obbedienza: la mente,
il cuore deve essere obbediente alla voce, alla parola, allo ‘sta scritto’”.
Fonte:
Enzo Bianchi, Al termine del giorno.
Parole per illuminare il viaggio interiore, Qiqajon, Comunità di Bose 2017,
121-122.