Uno dei più fini esegeti di
questi anni, Jean Louis Ska, ha usato due magnifiche espressioni per definire l’approccio
alla Bibbia. La si può pensare come una “sfera” oppure come una “foresta”. Per
alcuni, l’immagine con cui si rappresentano la Bibbia è quella di una “sfera”. “La
forma perfetta, secondo gli antichi, era precisamente la sfera poiché non vi è
più alcuna differenza fra i diversi punti della sua superficie. Ogni parte della
sfera può sostituire un’altra. Ogni parte può stare in alto, in basso, dietro,
davanti, a sinistra o a destra. Si può girare la sfera in tutti i sensi ed essa
rimane sempre uguale a se stessa” (Jean Louis Ska, Sacra Scrittura e Parola
di Dio, in “Studia Patavina” 49 (2002), p. 2). Così accade anche alla
verità che la sfera esprime, uguale a sé stessa, non ammette salti,
contraddizioni, difformità, enigmi. E là dove essi inevitabilmente si
presentano si è costretti a fare silenzio, costruirsi verità fittizie,
risolvere i problemi con una lettura menzognera. È da una lettura di questo
tipo che scaturisce una lettura fondamentalistica del testo, che tutti devono
accettare, che non ammette variazioni o dubbi. Non dobbiamo pensare solo all’islam,
ma per esempio a come il cristianesimo si è preteso religione “mondiale”.
La lettura della Bibbia come “foresta”
spalanca invece un’altra prospettiva. “La Bibbia è come una foresta, con le sue
valli, i suoi fiumi, i suoi colli e le sue radure. Vi si trovano alberi di
differenti essenze, e si passa dal bosco ceduo alla fustaia, dalla macchia a
una pineta, da una faggeta a un querceto, o ancora a un’ontaneta nei fondi
umidi. La varietà dei paesaggi e delle prospettive è infinita. Perciò, come non
si può mai scoprire tutta la foresta in un solo colpo d’occhio, non si può mai
avere una conoscenza complessiva di tutta la Bibbia. La foresta va scoperta
gradualmente e sempre parzialmente e lo stesso vale per la Bibbia. La nostra
conoscenza è fatta di una somma di scoperte ristrette e limitate” (ibid., p.
3).
Il fascino di entrare dentro
una foresta è dunque quello di trovarsi all’interno di una varietà infinita di
forme, dentro chiaroscuri che ci possono sorprendere, dentro un groviglio di
tracce e sentieri di cui bisogna individuare l’approdo, raccordarli tra loro,
scovare una via d’uscita o ricominciare daccapo, essere sferzati da una
bellezza sfolgorante e inattesa, oppure terrorizzati da improvvise apparizioni.
Avventurarsi nella foresta è il solo modo per sfuggire al cieco fondamentalismo
della sfera.
Fonte: Gabriella Cararmore, La
parola Dio (Vele 155), Einaudi, Torino 2019, pp. 58-60.